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Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2010 alle ore 17:05.
Sfuggente, enigmatica, segreta, l'opera di Gino De Dominicis si offre allo sguardo con una densità e una stratificazione di significati sconcertanti. Ogni sua mostra è una sfida per la mente, spinta a interrogarsi sul senso nascosto e inafferrabile delle immagini, ed è una sfida per i sensi, chiamati a uno sforzo arduo di decifrazione, anche per il volontario "accecamento" di tanti dipinti, conseguito con artifici diversi, dai vetri, resi specchianti dal buio del fondo da cui affiorano epifanie di immagini incorporee, alle luci, che amava puntare sul pubblico. Ogni sua mostra è quindi una prova severa, stimolante per il visitatore, ma è una prova più impervia per chi la organizza, perché l'artista ha volutamente disseminato di ostacoli il cammino degli studiosi, distruggendo il proprio archivio e impedendo la riproduzione delle opere che, a suo dire, una volta fotografate sarebbero diventate opera del fotografo.
Con questa prova il Maxxi si è voluto cimentare sin dal debutto, dando un segno forte di ciò che si propone di essere. Per farlo si è affidato ad Achille Bonito Oliva, uno dei rarissimi critici che di De Dominicis sono stati amici veri, e lui, in omaggio alla predilezione dell'artista per il pensiero magico, prelogico, ha impaginato questa ricca, bellissima mostra come un percorso iniziatico lungo l'architettura "liquida" del museo che, partendo dall'esterno, con il gigantesco scheletro di Calamita cosmica, si apre al piano terreno per avvolgersi poi lungo il vano oscuro delle scale e concludersi nella luce della galleria dell'ultimo piano con una parata di capolavori, molti rilucenti d'oro. Ad accompagnare la salita ha posto la risata fragorosa di D'IO, un'opera-calembour del tutto immateriale (è fatta di solo suono) che qui salda la sua fase "concettuale" degli anni Sessanta e Settanta con quella pittorica, dell'ultimo ventennio. Alla prima stagione, vissuta tra i venti e i trent'anni (era nato nel 1947, morirà nel 1998), è dedicata la sala a pianterreno, con quelle sue opere scaturite dalla volontà di esplorare la soglia di ciò che è inafferrabile, invisibile, ubiquo, o mosse dall'ossessione per l'inevitabile entropia della materia, a cui la sola arte può opporsi, grazie al dono dell'immortalità (questo il senso vero della celebre installazione-scandalo per la Biennale di Venezia del 1972, con il giovane Down scelto per la sua inconsapevolezza del franare del tempo). Un'arte difficile, certo, ma non ostica. Grazie anche ai suoi imprevedibili guizzi di ironia: come la vera mozzarella nella vera carrozza di Mozzarella in carrozza, un'opera "tautologica" del 1970, con cui lui, concettuale eccentrico, si prende gioco dei concettuali "ortodossi".