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Questo articolo è stato pubblicato il 01 giugno 2010 alle ore 09:43.
«Vedi, è la rabbia»; prende un piatto e scaraventa per terra. «È la rabbia di quando ero bambina, che non è mai passata». Il viso pieno di rughe, gli occhi pieni d'azzurro, le mani curve da scultrice. Louise Bourgeois era così, come l'ha mostrata il film biografico della Bbc. Lo era fino a ieri, quando alla soglia dei cent'anni è andata via.
Erano anni che non presenziava più alle sue mostre e non sarebbe venuta neppure a Venezia, dove la Fondazione Emilio Vedova sta per inaugurare una sua piccola ma preziosa personale. Ma lavorare, lavorava sempre, in quell'antro pieno di oggetti e stoviglie ch'era il suo studio, dove stirava il giornale ogni mattina per paura di essere contaminata dai germi e dove teneva con gelosia le opere che amava di più: pupazzi di stoffa trafitti, alambicchi, mani giunte a mostrare un intreccio di nocche, un arco dell'isteria con il calco del corpo del suo assistente, Jerry Gorovoy, vicino a lei per così tanti anni da avere preso nel suo cuore, più generoso di quanto amasse far credere, lo spazio di un figlio. E ne aveva già tre.
Con la grazia di una dama d'altri tempi apriva la sua casa con piacere, ogni mercoledì pomeriggio, ad artisti giovani e vecchi che volessero mostrarle ciò che facevano o anche soltanto chiacchierare. Ospite assiduo Robert Storr, curatore della Biennale di Venezia nel 2007, ma anche pittore, insieme a molti sconosciuti.
Lei lo sapeva, chi era. O piuttosto chi era riuscita a diventare dopo essere stata una madre affettuosa e la moglie di un uomo troppo importante, uno storico dell'arte inserito nel mondo dei musei newyorkesi, perché per lei fosse possibile esporsi senza passare per una raccomandata. Era per lui che aveva lasciato la Francia ed era andata a vivere negli Usa. Anche se certo non si annullò mai del tutto: nella corrispondenza si firma con il cognome da sposata sì e no due volte; poi dimentica l'entusiasmo e riprende il suo.
Prima di rimanere vedova lavorò quasi in incognito, coltivando i rancori che l'avevano uccisa da piccola e costruendo la fama che l'avrebbe tenuta viva da vecchia.
Così, quando venne inaugurata la Tate Modern, nel 2001, non si stupì che chiedessero a lei il primo grande intervento per gli spazi della Turbine Hall. Erano già trent'anni che aveva rotto gli indugi. Tardi, ma non ex abrupto. Aveva sempre coltivato una poetica privata; perché, diceva, «la vita è fatta di esperienze e di emozioni. Gli oggetti che ho creato le rendono tangibili».