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Cultura-Domenica Libri

Mondiali, quando i libri facevano gol

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Questo articolo è stato pubblicato il 14 giugno 2010 alle ore 10:51.

Chissà se il giovane portiere del Racing universitario Albert Camus ha mai immaginato che un giorno l'Algeria avrebbe debuttato nella Coppa del mondo di calcio, e per di più, nella prima edizione organizzata nel continente africano. C'è chi sostiene che solo la salute cagionevole gli abbia impedito di dedicarsi completamente al pallone, costringendolo a rivolgersi alla letteratura e alla filosofia e ad accontentarsi, invece che di una coppa Rimet, di un semplice premio Nobel... «Il calcio – sosteneva Camus – era stato per lui anche una chiave di lettura più generale perché aveva capito che «la palla non arriva mai da dove te l'aspetti. Mi è servito nella vita. Soprattutto a Parigi dove non ci si può fidare di nessuno».

E malgrado i contrasti anche aspri che hanno segnato il rapporto con lo scrittore-portiere, su una cosa anche Jean Paul Sartre concordava, che «il calcio è una metafora della vita».
Sosteneva Pier Paolo Pasolini che il «calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l'unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro». Per Pasolini, il calcio era «un linguaggio per eccellenza, quello che ci poniamo subito come termine il confronto». Quando Pasolini, habitué dei campi di calcio, – era un'ottima ala destra –, scriveva queste parole, agli inizi degli anni Settanta, il calcio aveva sì una presenza rilevante nella vita sociale del nostro paese, ma non era ancora il Moloch in cui l'onnipresenza della televisione l'avrebbe trasformato. Forse, perfino un amante del pallone come lui, sarebbe oggi infastidito dall'eccesso di offerta. Fatto sta che letteratura e calcio da sempre vanno a braccetto, da quando «l'oggetto quasi sferico, a pezze rettangolari cucite all'interno...», come lo descrisse con arte pari all'amore Gianni Brera, fece la sua comparsa nei prati delle periferie delle città italiane ai primordi del secolo passato.

Andato a visitare un luogo a lui finora sconosciuto, lo stadio, per fare felice la figlia, Umberto Saba rimase affascinato da quel coacervo di emozioni e passioni. E dalla sua penna uscirono le "cinque poesie per calcio". Una volta, il poeta rimase colpito, quasi commosso, dalla gentilezza di un tifoso avversario, a Padova, che offrì dei fiori a sua figlia. Erano altri tempi, sulle tribune il clima è assai diverso, i fiori non sono più di casa sulle curve. Anni prima della televisione imperante, Saba ci ha regalato l'istantanea del gol, quasi un fermo immagine, quel «portiere caduto alla difesa / ultima vana, contro terra cela / la faccia, a non vedere l'amara luce». E l'emozione alla "tredicesima partita" quando: «Piaceva / essere così pochi intirizziti / uniti, / come ultimo uomini su un monte, / a guardare di là l'ultima gara».

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Roma, 10 Nov 1978. Lo scrittore Pier Paolo Pasolini in attacco (Fotogramma)

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I tifosi, quella genia comune a tutti i popoli del calcio, cantata in Italia da un inglese di Manchester trapiantato a Verona. Tim Parks ci ha regalato le notti insonni in pullman, i compagni di viaggio improbabili, l'amarezza per l'addio del mister Prandelli. E il miracolo regalato dall'ultrà del Bari, un'immagine che idealmente si collega ai fiori regalati alla figlia di Saba. Racconta Parks, supertifoso dell'Hellas – a proposito, oggi sarà a Pescara per lo spareggio che vale la B? In ogni caso "suerte" – che il vento ruba il cappellino al veronese "Occhio di vetro" e la fa cadere nel settore dei fan pugliesi. Partono gli insulti, le grida, la polizia si agita, poi «quello più alto si avvicina all'inferriata... e dopo aver aspettato una pausa nel vento... lancia il prezioso oggetto che roteando viene ad adagiarsi nel nostro settore. Subito dai tifosi veronesi si alza un boato gratulatorio. –Ba-ri! Ba-ri!». È il bello del calcio, si sarebbe detto in tv. E sempre da Manchester ci racconta la sua «vita rovinata dal Manchester United» Colin Shindler, tifoso «non rassegnato» del City, l'altra squadra della città, quella povera di trionfi non certo di appassionati, segnata da anni di umiliazioni e disfatte. Anche se ora i soldi degli emiri potrebbero, chissà, ribaltare la storia. E ci racconta, Shindler, di come in estate, andata in vacanza la Premier League, tutti in città si ritrovino uniti a sostenere la squadra di cricket, a vivere insieme una passione meno intensa di quella del pallone, ma comunque non meno importante.

Il gol dell'Arsenal all'ultimo secondo dell'ultima partita di campionato, con tanto di scudetto conquistato, ha regalato a Nick Hornby fama mondiale. L'autore è grande, ma viene da chiedersi se il successo sarebbe stato lo stesso se l'argomento del romanzo fosse stato un altro, diverso dal gioco del pallone. Perché il processo di identificazione del lettore-tifoso è probabilmente il più forte che esista. Nel mondo che parla spagnolo, soprattutto nell'America del Sud, il calcio è sovrano, in particolare nel mondo della cultura. È una sorta di religione.

«Quel giorno non avrebbero fatto gol neanche in una porta grande come l'arcobaleno». Queste parole di Osvaldo Soriano stanno alla letteratura come il secondo gol di Diego Armando Maradona contro l'Inghilterra nel mondiale del 1986 sta al calcio. Siamo al capolavoro. Soriano amava il calcio e amava scrivere, aveva un passato di cronista sportivo in Argentina, e il calcio è spesso protagonista nelle sue pagine. È suo "il rigore più lungo del mondo", quello «tirato nel 1958 in un posto sperduto di Valle de Rio Negro, una domenica pomeriggio in uno stadio vuoto», nel profondo sud del Sudamerica. Venne a Roma, per i mondiali del Novanta e rinnovò l'emozione del ritorno all'amato lavoro di cronista del calcio.

E di Calcio come Religione «alla ricerca del suo Dio» ha scritto Manuel Vasquez Montalban, in occasione dei mondiali disputati in Francia nel 1986. «Sono gli scrittori sudamericani – scrisse – a trasformare il calcio in una specie di epica moderna». Montalban parla di religione di tipo laico, con i suoi riti e le sue cattedrali, le gioie, le delusioni. E grande fu quella dello scrittore catalano, supporter degli azulgrana del Barcellona, dopo una disfatta contro il Milan in una finale di Champion League.
Gli stadi, le cattedrali del calcio. Il Bernabeu, il Maracana, la Bombonera, San Siro, il teatro di Gianni Rivera «l'artista» raccontato da Oreste del Buono. Vittorio Sereni, il grande poeta di Milano, racconta la passione per lo stadio. Lui, che non perdeva una partita dell'Inter, sempre con il fedele cuscino neroazzuro, canta perfino "il catino vuoto", «a fine luglio quando / da sotto le pergole di un bar di San Siro / tra cancellate e fornici si intravede / un qualche spicchio dello stadio assolato /». Lui, il poeta interista, ha cantato anche il trionfo juventino: «Il verde è sommerso in neroazzurri. / Ma le zebre venute di Piemonte / sormontano riscosse a un hallail / squillato dietro barriere di folla. / Ne fanno un reame bianconero /».

E anche Maurizio Cucchi ci riporta a San Siro, a una domenica del 1953, passata in compagnia del padre: «L' uomo era ancora giovane e indossava / un soprabito molto fine / Teneva la mano di un bambino / silenzioso e felice».
Tanti poeti per il pallone, e se si vuole, con un precursore di prestigio, quel Giacomo Leopardi che dedica A un vincitore nel pallone una sua poesia densa di elogi e ammirazione. Ed Eugenio Montale amò tanto il calcio da utilizzarlo per metafora surreale: «Sogno che un giorno nessuno farà più gol in tutto il mondo». Ma il calcio senza gol che cosa sarebbe? Niente. Anche se un grande giornalista, Luigi Pintor, anche lui portiere in gioventù, brontolava se gli capitava di vedere il calcio in tv: «Mostrano solo i gol, ma il bello è tutto il resto, l'attesa, le paure, gli scontri».
Ora è tempo di mondiale, da due giorni si gioca. Non resta che aspettare, la grande storia del calcio è destinata certamente a trovare nuovi cantori.

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