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La verità è appassionata di deserti

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Questo articolo è stato pubblicato il 27 giugno 2010 alle ore 14:49.

Più volte ho cercato immagini e metafore per tentare di raccontare cosa significhi "fare ricerca". E ogni volta torno alla stessa visione: il deserto. Immenso e apparentemente silenzioso, continuamente mutevole ma essenziale nei suoi tratti, misterioso, anche pericoloso, ma assolutamente affascinante. Ogni volta penso, in fondo, devi "solo" costruire una strada "per arrivare là", che è sempre un po' più in là. E ci devi riuscire con le tue forze. Non hai trovato barriere nell'entrare. Non troverai impedimenti se non la realtà che dovrai affrontare. Potrai seguire le tracce di coloro che ci sono magari già passati. A volte lo potrai fare facilmente, tanto saranno visibili, altre volte basterà un soffio di vento per cancellarle. Ma, comunque, non potrai essere certa che chi le ha lasciate sia andato dalla parte giusta. E non potrai sapere, a priori, se la tua intuizione ti porterà "là". Puoi essere molto sola, in quel luogo, dove non conta altro che l'evidenza e la solidità delle strade che percorrerai.

Eppure, quando sei dentro, capisci anche che questo spazio è denso di incroci dove ipotesi, risultati, emozioni e speranze si misurano continuamente per costruire un nuovo territorio di conoscenza e di confronto. Un dominio che contribuirà a ridurre, di poco o di tanto, lo spazio sconosciuto di quel deserto. Lo sai senza sapere se e dove arriverai. Capisci che imparerai presto a riconoscere la fatica della sopravvivenza e a iniziare ogni nuovo giorno con lo spirito di chi sta continuamente per partire. Sai che c'è spazio per le idee di tutti (o così dovrebbe essere) e cercherai tutti coloro che avranno idee valide da mettere in competizione tra loro. Le idee in competizione, non le persone. Perché quel deserto si conquista insieme.

Un deserto sembra monocolore a chi non lo osserva bene, e non lo ama. A guardar bene non lo è, è pieno di tonalità. Bisogna avere il gusto di osservarle, di evidenziarle. Ed è la stessa cosa per lo spazio reale del laboratorio di ricerca. Le tonalità sono le unicità degli oggetti, delle persone, delle mani che si muovono con la delicatezza e la precisione di chi impara molto presto cosa significhi toccare il domani. E che allo stesso tempo si prodiga per organizzare il nuovo sapere nella pratica di tutti i giorni. Tutto è in comune, tutto è registrato, tutto è minuzioso, archiviato, classificato. Reagenti, cellule, anticorpi, protocolli, compiti, scadenze. Si vive di regole che nell'insieme formano un codice di comportamento per lavorare insieme: meglio e soprattutto prima.

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Tags Correlati: Cultura | Dennis Overbye | James Thomson | Shinya Yamanaka | Università degli studi di Milano Bicocca

 

Non c'è qualcosa di imponente in tutto ciò? Un mondo di idee, di persone e di materiali dal quale non esce (o non dovrebbe uscire) una aumentata stima di sé stessi, ma solamente un risultato, visibile, ripetibile, soprattutto pubblico.
È vero, ci si innamora delle proprie idee. Poi queste vengono portate al bancone del laboratorio dove comincia l'opera più importante, quando mani pensanti organizzano spazi, oggetti e tempi per mettere in fila tutti gli esperimenti immaginabili volti a consolidare o a smantellare quell'idea di cui ti sei innamorata, ma che sposerai solo quando sarai sicura. Saranno i risultati di questo lavoro certosino a decidere e sarai la prima al mondo a vederli. Risultati che poi verranno messi a disposizione di tutti per essere ulteriormente verificati e usati per i prossimi passi. Saprai cosa significa spostare il muro dell'ignoto un po' più in là. Oppure sentirai il peso del fallimento. Se cerchi bene, scoprirai cosa significa lavorare per contribuire alla speranza degli altri.

Nessuna strada può essere trascurata quando sei alla frontiera. In uno stesso laboratorio si può ricercare su cellule staminali adulte ed embrionali, ma viaggiare anche indietro nel tempo fino a 800 milioni di anni fa per scoprire il gene responsabile della Corea di Huntington – una malattia neurodegenerativa oggi incurabile – persino nel Dictyostelium Dyscoideum, il primo organismo multicellulare comparso sulla terra. Cosa ci faceva lì? Perché l'evoluzione l'ha mantenuto al punto da renderlo così pericoloso per l'uomo?
Non smette mai di stupirmi questa impresa conoscitiva organizzata, che sfida l'ignoto in ogni sua dimensione e con le sole armi della creatività e della disciplina, della fantasia e del rigore, del coraggio e dell'umiltà, dell'amore e della ferocia. Sempre alla ricerca dell'oasi, dove c'è l'acqua per ripartire.

Come le strade nel deserto, difficili da riconoscere, necessarie e durevoli nella loro instabilità, così la conoscenza scientifica si fa strada attraverso i percorsi che riesce a generare e ripercorrere, perché la traccia rimanga e si consolidi. Mi piace un esempio, che sento vicino alle mie competenze. Nel 1998, con sole 3 pagine pubblicate su «Science», James Thomson spostò la frontiera del mondo, rivoluzionò la scienza, espose la società a nuovi pensieri. Scatenò il confronto su cosa fosse una blastocisti (sovrannumeraria) dalla quale derivò, per la prima volta, le cellule staminali embrionali umane. Oggi da queste sappiamo ottenere neuroni, cellule del cuore, epatociti come non è possibile fare da nessuna altra staminale. Queste capacità sono "talenti" che non vanno sotterrati. Sono pozzi di conoscenza e di speranza.

Poi, nel 2007, queste stesse ricerche portarono Thomson e Shinya Yamanaka alla riprogrammazione di cellule adulte per generare nuove staminali surrogate delle embrionali. Ecco quindi le nuove e interessanti prospettive della scienza, spesso accompagnate da dilemmi etici, filosofici, sociali altrettanto interessanti e da prendere seriamente (quando giustificati) per costruire un rapporto tra scienza e società basato sulla trasparenza, sull'integrità, sulla coerenza dei pensieri e dei comportamenti di chi fa scienza, di chi la studia o la amministra, di chi crede e spera in essa.
Dopo 20 anni di ricerca ho imparato che si "continua" a diventare scienziato, giorno dopo giorno, attraverso la responsabilità delle idee, delle persone in laboratorio, delle speranze, e anche dei fondi che ci vengono affidati per progredire. Si impara l'audacia di dubitare (delle proprie idee, anche) e la temerarietà di dissentire, sentendone quasi fisicamente la necessità, quando serve.

«Se non facciamo buona scienza probabilmente non stiamo praticando una buona democrazia, e viceversa» – ha scritto Dennis Overbye, fisico e scrittore del «New York Times» –. È questo lo spazio del mio deserto che più amo, perché mi ricorda ogni volta che la scienza è molto più dei risultati che produce. Essa infatti imprime forza alle società che la ispirano, aiutando a crescere la democrazia. Può insegnare a essere cittadini migliori, rispettosi delle evidenze, amanti di ciò che è comune, impermeabili alle menzogne, resistenti ai compromessi, insofferenti di fronte agli abusi.

Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Centro di Ricerca UniStem - Università degli Studi di Milano

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