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Questo articolo è stato pubblicato il 08 luglio 2010 alle ore 18:21.
Di solito, per uno spettacolo teatrale italiano, dieci anni di ininterrotta replica rappresentano una felice eccezione. E lo è senz'altro anche nel caso di «Mai morti», scritto e diretto da Renato Sarti - allievo di Giorgio Strehler e regista del teatro impegnato milanese - e interpretato, alternativamente, dallo stesso Sarti e da Bebo Storti. Senonché, la dura tematica della drammaturgia, ovvero la latente recrudescenza neofascista che alligna in Italia, rende meno lieto questo anniversario: «Oggi - ci dice Sarti - a distanza di dieci anni, questo spettacolo è purtroppo più attuale che mai».
Significa che lei vede nel nostro Paese segnali di un ritorno al passato?
«Io credo che il fatto che questo spettacolo venga ancora richiesto a distanza di tanti anni, sia la spia di un clima tutt'altro che sereno. Si tratta di segnali inquietanti, che sono la testimonianza di una perdita di memoria collettiva: in Sardegna ho visto, di recente, interi tratti di scogliera deturpati con scritte neofasciste e svastiche; altrove in Italia, piazze o caserme intitolate a torturatori fascisti o repubblichini. D'atro canto, basta sentire i discorsi della gente in strada o nei bar per rendersi conto dell'aria pesante che respiriamo».
Cosa può fare un linguaggio sempre più specializzato e minoritario come quello teatrale per affrontare questa situazione?
«Quando sento parlare, a proposito dei miei spettacoli, di 'teatro civile', la definizione mi fa piacere. Tuttavia, io punto soprattutto sul primo dei due termini, perché non sono la documentazione di taglio giornalistico o la cronaca le peculiarità del mio lavoro. Io voglio colpire lo spettatore con la specificità del mio linguaggio, e penso che proprio grazie alla sua forma caratteristica, il teatro possa fare molto per svegliare le coscienze».
«Mai Morti», ribattezzato per l'occasione «ai Morti - dieci anni prima», replica dall'8 al 15 luglio al Teatro della Cooperativa, alternando le interpretazioni di Sarti e Bebo Storti e dimostrando di essere prima di tutto uno straordinario canovaccio dell'impegno culturale milanese. Un allestimento che in dieci anni ha percorso una strada eterogenea, dall'istituzione pubblica (il Comune, con il debutto nel 2000 alla Maratona) alle principali realtà teatrali cittadine, dal Teatro dell'Elfo al Piccolo Teatro. Proprio «quel» Piccolo, la sala rievocata con nostalgia dal protagonista del testo, il neofascista che parla con compiacimento delle torture che, durante la secondo guerra mondiale, i nazisti infliggevano ai partigiani proprio in via Rovello, prima che il teatro diventasse la casa di Grassi e Strehler. Una pagina di storia e di palcoscenico che non smette di dare i brividi.