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Cultura-Domenica Musica

L'armonia ritrovata a Est

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Questo articolo è stato pubblicato il 14 luglio 2010 alle ore 08:27.


«Con quale inno iniziare il concerto? Ho pensato perfino di comporre una partitura che li includesse tutti e tre. Poi mi sembrava complicato e ho deciso di suonarli in senso orario: prima l'italiano, poi lo sloveno e poi quello croato». Nessuno dei 130 musicisti e dei 230 coristi italiani, sloveni e croati che ieri sera si sono esibiti in piazza dell'Unità d'Italia a Trieste per il concerto «Le vie dell'amicizia» ha percepito i patemi di Riccardo Muti che li ha diretti. Ad ascoltarli c'erano i presidenti della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, slovena, Danilo Türk, e croata, Ivo Josipovic´ che, con un gesto irrituale, alla fine del concerto sono saliti sul palco ad applaudire. Con loro cinquemila persone sedute e altrettante in piedi.
Il molo Audace che prolunga la piazza, nonostante il nome minaccioso, vigilava un mare calmo, dove centinaia di barche triestine e ravennate in gran pavese facevano da sfondo all'evento. Una tranquillità che celava, dietro le quinte, un gran lavorio diplomatico. Trieste è stata, ed è, terra di scontri: le foibe, l'esodo dei profughi istriani, fiumani e dalmati, l'occupazione fascista dei territori dell'ex Jugoslavia sono ancora ferite aperte. Prima di Trieste la compagine del Ravenna festival (che con questo concerto ha chiuso la sua ventunesima edizione) per «Le vie del l'amicizia» era stata a Sarajevo nel 97, a Gerusalemme, a Ground Zero a New York subito dopo l'11 settembre e in molte altre città divise e lacerate dalla storia.
Ieri sera anche a Trieste il Requiem di Cherubini (suonato dopo Libertas animi dello sloveno Andrej Misson, e l'Inno alla libertà del croato Jakov Gotovac) ha avuto un significato speciale. «È un augurio: che vi sia pace e riposo per tutti quelli che sono morti e hanno visto gli orrori della guerra», ha spiegato Muti. Poi si è schermito: «Io non ho avuto nessun ruolo nell'evento. Il presidente Napolitano è stato particolarmente ricettivo quando ha sentito la nostra idea e il primo riconoscimento va ai tre capi di stato che hanno lavorato per la realizzazione di quest'incontro musicale».
Al concerto non c'era Boris Pahor, scrittore italiano della minoranza slovena, che tanto si è prodigato in favore della riconciliazione dei popoli di queste terre. «Non sono per le funzioni in grande stile, credo che i tre capi di stato abbiano fatto un bell'atto, ma mi aspettavo qualche cosa di più dal presidente Napolitano», ha precisato l'autore di Necropoli (Fazi), in vetta alle classifiche nel 2008. Pahor, proprio sulle nostre pagine, aveva ricordato dell'incidente diplomatico creato da un passaggio del discorso di Giorgio Napolitano, pronunciato nel 2007 nella giornata del ricordo delle vittime delle foibe e dell'esodo. Il capo dello stato aveva parlato dei fiumani e dei dalmati come vittime di un «moto di odio e di furia sanguinaria che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica». Gli aveva risposto allora presidente croato Stipe Mesic´: «È impossibile non intravvedere elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e revanscismo politico».

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Tags Correlati: Andrej Misson | Boris Pahor | Danilo Türk | Fazi Editore | Giorgio Napolitano | Jakov Gotovac | Presidenza della Repubblica | Riccardo Muti | Stipe | Trieste | Zandonai

 

Pahor è d'accordo sulla dichiarazione congiunta diffusa ieri dai tre presidenti, ma aggiunge: «Napolitano aveva tutta l'opportunità di scrivere quattro righe di suo pugno. Tutto ciò che i fascisti hanno fatto nell'ex Jugoslavia è ancora da raccontare. Il governo italiano e sloveno nel '75 avevano creato una commissione mista di storici per analizzare i rapporti tra gli stati dalla fine dell'Ottocento al 1965. Ci sono voluti sette anni di lavoro per una ricostruzione corretta. Io l'ho letta, ma è ancora nel cassetto. Si parlava dei profughi, delle foibe, dei crimini fascisti con onestà. Perché non è stata ufficializzata?».
Certo, Pahor si sarebbe commosso ieri quando i tre presidenti hanno deposto una corona in onore di coloro che morirono alla casa della cultura slovena nel 1920 per un incendio appiccato dagli squadroni fascisti. Lo scrittore era stato testimone oculare dell'evento, proprio il 13 luglio di 90 anni fa, assieme alla sorella minore e descrisse la scena nel libro Il rogo del porto (Zandonai editore, 2008). «Il presidente della Repubblica non è direttamente responsabile – riprende Pahor – ma lo è il governo attuale e i passati, di qualunque colore, che non vogliono scavare nella storia. L'incendio alla casa della cultura è solo l'inizio dei crimini che i fascisti hanno commesso nell'ex Jugolsavia. Bisogna parlarne e rendere omaggio alle migliaia di sloveni fucilati e morti nei lager, alle migliaia di italiani vittime delle foibe e ai profughi istriani, fiumani e dalmati nella stessa maniera. Come scrittore sono sempre dalla parte dei morti, ma di tutti i morti». Speriamo che serva anche l'omaggio reso dai tre presidenti al monumento all'esodo dalle terre natali degli istriani, fiumani e dalmati. C'erano persone di una certa età a seguire i tre presidenti. Hanno applaudito, anche se qualcuno ha protestato per la mancata visita alle foibe di Basovizza. È una questione che sembra riguardare soprattutto le generazioni più vecchie. Le nuove guardano avanti. Come quelle che erano sul palco in piazza dell'Unità d'Italia. Già per loro il nome di questa piazza suona desueto. Loro, che si spostano senza frontiere preferirebbero indubbiamente ribattezzarla piazza Unità d'Europa.
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