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Questo articolo è stato pubblicato il 21 luglio 2010 alle ore 08:04.
Tra il primo Hugo Pratt e l'ultimo Chris Ware ci sono 60 anni di fumetto e milioni di tavole in cui i disegni sono inscritti in un rettangolo dai bordi neri. Il testo è in una nuvoletta dai contorni morbidi se è parlato; in un box rigido se non lo è. Il disegno è a china e il disegnatore ha una sceneggiatura di riferimento. Lo scopo: raccontare storie.
I fondamentali sono gli stessi, gli esiti completamente diversi. Cosa è successo nel frattempo? Moebius, altro innovatore come i due citati, nella prefazione a Sgt. Kirk di Pratt, di recente ripubblicato da Rizzoli-Lizard, sostiene che «non c'è nulla di meglio del caro,
vecchio contesto per rimettere le cose in prospettiva». Il contesto, nel mondo delle nuvole parlanti, sono due ondate colonizzatrici: quella supereroistica statunitense a partire dal dopoguerra; quella giapponese degli ultimi 15 anni, che ha utilizzato la tv come cavallo di Troia per entrare con i manga in occidente.
Entrambe hanno stabilito standard che hanno condizionato tutta la successiva produzione mondiale, non solo dal punto di vista narrativo, stilistico e contenutistico, ma anche produttivo e commerciale. Dalla logica industriale per prodotto si è passati a quella per target, per allargare il mercato al pubblico femminile e a quello adulto. Con una forte integrazione tra fumetti e cinema d'animazione o giochi elettronici, unita agli strumenti classici del marketing, della coproduzione e del licensing, l'industria del comics ha dato vita a format che permettono uno sfruttamento intensivo, ripetuto e programmabile del prodotto.
Ma tra queste due ondate, previste e volute, si è insinuata un'onda anomala, quella dei cosiddetti «graphic novel», che si possono definire come storie disegnate autoconclusive, non seriali, in forma di libro con dimensioni variabili, vendute in libreria. Il primo esempio viene individuato in Contratto con Dio, di Will Eisner, del 1978, e la rottura con il passato in Maus, di Art Spiegelman, del 1986. La vera incubatrice del neonato è stata, a proposito di contesti, la cultura underground statunitense degli anni 70, quando gli autori più giovani, non trovando sbocco nell'editoria "mainstream", editavano se stessi su piccole pubblicazioni indipendenti, che hanno consentito una caotica sperimentazione in opposizione alla standardizzazione e agli stereotipi del momento.