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Questo articolo è stato pubblicato il 07 agosto 2010 alle ore 14:30.
Locarno si affida ancora ai morti viventi. Questa volta, con «Rammbock», senza le provocazioni estetiche della pornografia «artistica» di Bruce LaBruce, ma con la mano capace del tedesco Marvin Kren. E in questo caso in Piazza Grande. Un gioiello del genere horror, e del sottogenere degli zombie-movie, che conferma il taglio audace della selezione del nuovo direttore. Finora le opere selezionate hanno affrontato argomenti difficili, dal disagio sociale e del lavoro all'incesto, dai morti viventi gay al Babbo Natale cattivo di un film finlandese che passerà domani, insieme all'atteso «Cyrus» con un eccellente John C. Reilly.
Rammbock, applaudito anche in Piazza, rappresenta un interessante esperimento. Pensato per la tv tedesca - e infatti dura poco più di un'ora - ma selezionato per un festival (da La meglio gioventù a Carlos, Cannes insegna che si può attingere al piccolo schermo per felici eccezioni), si ispira agli schemi classici del genere senza però mai scadere nella banalità. Lo si capisce fin dall'inizio, dal viso del protagonista, Michael Fuith, uomo medio e apparentemente mediocre, alla ricerca di un amore perduto. Vuole riconquistare la sua Gabi, ma appena arrivato a Berlino, trova la capitale sconvolta da un'epidemia. Tutti, o quasi, sono diventati come rabbiosi, zombie aggressivi e ottusi, e l'epicentro di tutto sembra proprio il condominio della ex fidanzata. Comunità che già di suo non sembra brillare per umanità. Potrebbe essere Rec, ma Kren sa metterci qualcosa in più oltre al ritmo, l'ottima regia, qualche citazione gustosa (da Shining a Donnie Darko).
Mostra qualcosa che nell'horror moderno si è perso, il gusto del sentimento e non del sentimentalismo patetico di molti finali di film del terrore. Lo si capisce dall'ironia delicata e feroce di alcuni passaggi, ma anche dalla commozione per un'amore che va oltre la morte. O meglio, che sa sconfiggere e umanizzare persino la non-vita di questi moderni zombie. Due coppie arrivano alla fine, due ragazzi e due «malati»: entrambi sembrano dirci che la fine del mondo non si compierà se si ascolta il cuore. E quello degli spettatori, così, batte più forte, e non solo per la paura.
E a dire la verità batte forte