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Questo articolo è stato pubblicato il 11 agosto 2010 alle ore 08:07.
Niente più teatrini alla moviola nelle trasmissioni sportive della Rai. L'annuncio, qualche settimana fa, ha scatenato l'inevitabile dibattito. In effetti la notizia suona un po' provocatoria. Non tanto perché sembra – ma solo a un primo, superficiale approccio – in controtendenza rispetto al sempre più incalzante coro invocante l'uso della moviola in campo, fattosi planetario dopo i clamorosi errori arbitrali del Mondiale in Sudafrica. Quanto perché segnala uno smarcamento della tv di stato da un conformismo televisivo che ha finito per penalizzare la narrazione, spettacolare e informativa a un tempo, a beneficio di una frammentazione sensazionalistica frutto di una selezione di dettagli utili solo a scatenare bagarre in studio e seminare veleni nei bar, inutili a modificare il risultato e anche (molto spesso) a stabilire una "verità".
Insomma, si cambia. Spiegare la partita, mostrare le azioni di gioco, più ragionamenti e meno urla, freno alle polemiche artificiali e alle dietrologie fittizie, ecco il senso dichiarato della sterzata. Eugenio De Paoli, direttore di Rai Sport e principale promotore della scelta condivisa dai vertici aziendali, ha parlato di «atto di coraggio» e di «rivoluzione culturale». Si dice che a ispirarlo siano stati gli articoli di Beniamino Placido, di cui era amico e di cui rimane estimatore. Il riferimento arricchisce di sfumature di grigio il pacchiano bianco o nero di «moviola sì-moviola no» e rimanda a una visione della tv più articolata di quella attuale.
Per otto anni (tra l'85 e il '93) Placido ha rifiutato ogni invito a cena fuori perché impegnato a tener d'occhio il suo 26 pollici per comporre, tutti i giorni, la sua rubrica su «Repubblica» intitolata «A parer mio», che ha cambiato il modo di guardare la tv e ha lasciato una traccia indelebile nella storia della critica televisiva. Ma poiché tracce nella cultura italiana Placido ne ha lasciate un po' dappertutto, nella raccolta antologica di suoi articoli appena uscita col titolo Nautilus (Laterza) c'è spazio appena per le sue acute osservazioni, associazioni, divagazioni compiute in quel periodo passato come se fosse agli arresti domiciliari. Ma quello «meriterebbe un libro a parte», spiega il curatore Franco Marcoaldi, quasi scusandosi per l'involontaria "avarizia". Del resto è tale la mole di scritti in trent'anni sullo stesso giornale, che non si poteva privilegiare un particolare segmento della sua attività. Si è optato per andare "a orecchio", «in modo che ciascun testo rimbalzasse nel successivo, fino a comporre un tessuto capace di restituire il "tempo" che ha sempre animato la scrittura di Beniamino: quell'allegro con brio, che batte al ritmo di una grande libertà mentale».