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Cultura-Domenica Libri

«Twitter? No, grazie. È il fast food della cultura»

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Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2010 alle ore 13:29.

Che Jonathan Franzen sia un amante del BlackBerry è cosa nota dall'autunno del 2008, quando pubblicò sulla rivista di tecnologia del Mit di Boston il saggio I Just Called to Say I Love You, in cui spiegava così il suo amore per l'oggetto: «Mi consente di replicare a lunghe e sgradite mail con poche righe telegrafiche, e il destinatario non mancherà di sentirsi riconoscente, perché le ho digitate con i miei pollici». Quello che non potevamo immaginare è che, durante un weekend di ferragosto con pochi gradi e molto lavoro, quel destinatario saremmo stati noi.

Avevamo deciso di chiedere allo scrittore americano di partecipare all'iniziativa delle Cartoline d'Estate della Domenica del Sole 24 Ore: «Caro Jonathan, ci invierebbe in 140 caratteri un messaggio per dire dove e come trascorrerà questo weekend di ferragosto?». Ed ecco le temute "poche righe telegrafiche": «Thanks, but I don't tweet». Grazie, ma io non uso Twitter.

Questione di gusti si dirà: sono tanti gli scrittori che non utilizzano o non amano i nuovi strumenti di comunicazione offerti dalla Rete. Certo è che una tale indifferenza nei confronti dei new media da parte dello scrittore definito dal Time «the great american novelist», il grande romanziere americano (non accadeva a uno scrittore vivente da più o meno dieci anni) ha bisogno di spiegazioni. «Non sono indifferente a Twitter - scrive Franzen -. Lo odio con tutto me stesso per la cultura dell'ultra brevità tipicamente americana che esprime».

Non c'entra l'ansia per l'imminente uscita di Freedom, il suo quarto e attesissimo romanzo, o l'interruzione della seduta quotidiana di birdwatching a Santa Cruz. Il disprezzo per Twitter di Jonathan Franzen ha dietro un progetto politico: difendere la letteratura dai pericoli della modernità tecnologica. O come afferma lo scrittore nello scambio di mail: «resistere contro la bestia tecnoconsumista». «Non crede che se un romanzo è buono, continua ad esserlo anche tra tweet, post e sms?». Risposta: «Queste cose sono una sciame di mosche in una sala di lettura». «Fortunatamente però la nostra cultura non è monolitica e ci sono ancora tante sacche vibranti di resistenza». La sua è ben illustrata dal servizio fotografico del Time, a partire dalla foto di apertura dell'articolo (firmato Lev Grossman), in cui lo scrittore residente a Manhattan, accovacciato in un campo incolto, accanto a resti di capanna, aspetta un uccello da osservare. Esplicativa anche la seconda immagine: un laptop solitario, senza collegamento a Internet e con porta Ethernet bloccata, sulla scrivania.

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Tags Correlati: Cultura | David Foster Wallace | I Just Called | Jonathan Franzen | Lev Grossman | MIT | Sam Anderson | Stati Uniti d'America | Talk

 

È con questo computer che Franzen, che compie 51 anni oggi, ha scritto Freedom. Ancora una volta protagonista è la famiglia americana vittima del benessere: i citatissimi Lambert delle Correzioni (ha scritto Sam Anderson nell'ultimo NY Times Magazine: «Se sei un umano istruito che vive sul pianeta Terra, probabilmente hai un'opinione sulle Correzioni di Jonathan Franzen») vengono sostituiti dai Berglund. La domanda che circola in queste ore in America è se Franzen sia riuscito nel suo intento di salvare il romanzo americano, come si era prefisso in un saggio uscito su Esquire nel 1996. Mentre in tanti (vedi la potente critica del New York Times Michiko Kakutani con cui lo scrittore polemizzò dopo la recensione negativa di Zona Disagio definendola: «la persona più stupida di New York») vedono il romanzo come una boccata d'aria dalle sue teorie sociologiche. In questi anni infatti Franzen si è espresso con convinzione e animosità su una vasta gamma di temi che interessano la società civile: dai talk show televisivi al sistema carcerario americano, dall'ossessione per la privacy dei cittadini alla politica. La tecnologia resta comunque uno dei suoi temi preferiti.

Memorabile l'invettiva contro il cellulare, simbolo di tutti i mali del ventesimo secolo, che ha toccato l'apice l'11 settembre del 2001 quando è diventato «l'unico veicolo affettivo nella disperazione». Insomma il grande romanziere americano del XXI secolo, miglior amico di quel genio visionario che fu David Foster Wallace, si presenta come un gran conservatore. In effetti, le prime recensioni descrivono Freedom come un romanzo più da 19esimo che da 21esimo secolo. Considerazioni da critici. Quello che non sfugge a noi semplici osservatori è che Le Correzioni, uscito la settimana dell'11 settembre 2001, divenne sì simbolo dell'America, ma di quella che crollava insieme alle Torri Gemelle. E Freedom, con le sue storie di tradimenti e di redditi alti, sembra descrivere gli Stati Uniti esplosi e frantumati con la crisi economica del 2008.

Sempre un passetto indietro insomma, pegno forse della «resistenza alla bestia consumista». Ma se il suo Paese è così mal ridotto perché continua a viverci? «Perché è la mia casa», recita l'ultima mail di ferragosto. Ironia della sorte sulla copertina del libro è disegnato un passero che cinguetta, come il simbolo di Twitter. Ma stavolta non glielo faremo notare.

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