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Cultura-Domenica Arte

«On the road», ma in verticale

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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2010 alle ore 08:02.

Italia, quanto sei lunga, cantava Giovanna Marini, pensando agli italiani del Sud e a quelli del Nord come espressione di tòpoi complementari, asimmetrici e, nonostante tutto, indivisibili. Ma se andiamo oltre il nord, scopriamo come a questi tòpoi sfugga forse la Valle d'Aosta, isola, luogo sospeso, semplicemente immaginato e dunque sconosciuto, restituita al resto del paese nelle cartoline rassicuranti di una montagna immobile, senza tempo. A squarciare il velo di retorica legata alla montagna valdostana, ci hanno pensato, in questi giorni di mezza estate, due libri e un personaggio. Se ne sentiva il bisogno.
Cominciamo dalla cronaca. Solo pochi giorni fa la neve ha coperto le cime e i pascoli poco sopra i 2mila metri di altitudine, quasi a salutare in silenzio l'ultimo grande vecchio della montagna valdostana, la guida del Cervino Jean Bich, scomparso a 94 anni, pronto ora a raggiungere la suggestiva Spoon River della Piazzetta delle Guide a Valtournenche, un perimetro abitato di facciate letteralmente coperte di lapidi. Alpinista eroico, se ne è andato ai piedi del monte più bello e della sua nemesi in cemento, Cervinia. Fine di un'epoca. E adesso? Vissuta e amata da personaggi come Massimo Mila e Luigi Einaudi, che ne apprezzavano l'asperità geografica e culturale, la Valle d'Aosta è divenuta sconosciuta a chi (valdostani compresi) l'ha avvolta per decenni nell'immaginario folklorico e celebrativo legato a contemplanti bergers e a conquistatori indomiti di vette. In realtà, negli alpeggi ci si alza alle 4,30 del mattino e si lavora molto (ormai lo fa quasi esclusivamente la comunità marocchina), mentre in montagna le eroiche Guide, lasciati al loro destino i viaggiatori inglesi, si occupano ora delle famiglie russe in cerca di un brivido e di qualche istantanea.
In questi giorni sono usciti un pamphlet dello scrittore Enrico Camanni e una raccolta del sociologo Giuseppe De Rita (scritto insieme alla moglie Maria Luisa e agli otto figli), entrambi editi dalla piccola e valdostana Liaison Editrice, che rivelano una sguardo innovativo, diverso e personale della montagna valdostana. La metafora dell'alpinismo, di Camanni, racconta la geografia etica e psicologica della montagna. Poche pagine che rivelano leggerezza, chiarezza e capacità di sintesi. La tesi è semplice: se l'inutilità dell'alpinismo è proprio ciò che lo ha salvato dall'estinzione, quello che conta, quando si va in montagna, è il contesto, non certo l'agognata vetta. On the road, ma in verticale.

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Tags Correlati: Antoine Le Menestrel | Italia | Jean Bich | Lalla Romano | Liaison Editrice | Luigi Einaudi | Marcel Carné | Maria Luisa | Massimo Mila | Mostre

 

De Rita racconta invece i suoi Cinquant'anni a Courmayeur (non uno di meno), oggi costoso parco giochi per i nouveaux riches, alternativi nel senso che De Rita non ha ceduto al suv, né si è inerpicato in scalate estreme, ma ha goduto di piccole scoperte, di incontri casuali e di luoghi inediti. Un ritorno alla Valle d'Aosta di Einaudi e Mila, ma anche a quelle intime di Lalla Romano e di Goffredo Parise.
A interpretare una montagna diversa, con la drammaturgia del gesto, ha pensato invece una icona dell'arrampicata sportiva, Antoine Le Menestrel, qualche giorno fa al Castello di Introd, ospite del Festival omonimo ai piedi del Gran Paradiso. Che ha abbandonato le tradizionali falesie, inventando una disciplina che è, insieme, un linguaggio: la danza verticale. Mettendo in scena performances non protette, sintesi di teatro, arte contemporanea e alpinismo spinto al l'estremo. Come il mimo Baptiste Debureau del capolavoro di Marcel Carné, a cui perfino assomiglia, Le Menestrel esprime emotività naturale, anche da fermo, non da acrobata, quanto piuttosto da story teller, narratore di storie e di emotività. Ecco la novità. Arrampicandosi su finestre, cornicioni e campanili, lasciandosi andare su fili sospesi a diversi metri da terra, ha portato le falesie nelle piazze e trasformato i passaggi tecnici in danza.
E qualche sospiro d'aria nuova (di montagna) arriva anche dalla musica, con il secondo «Festival des peuples minoritaires», dal 1º al 3 settembre prossimi, ad Aosta. Che una minoranza linguistica abbia bisogno di un festival a sé dedicato, non è cosa del tutto ovvia, o almeno imprescindibile. Che abbia necessità di esprimere la propria identità con la musica, è invece già più evidente. Il nu-folk è protagonista assoluto delle tre giornate minoritarie, con giovani ensemble che hanno fatto della pacifica resistenza linguistica la propria missione estetica. Esprimendo, con la musica, la volontà di uscire dal ghetto del folklore per aprirsi alle musiche del mondo. Questa volta tocca alle minoranze linguistiche catalana, bretone e ladina. A completare le minoranze, quella locale, con musicisti che aprono ogni concerto con musiche occitane e del mondo. Se le maggioranze sono, per definizione, silenziose, bisogna che almeno le minoranze cantino.
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