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Questo articolo è stato pubblicato il 31 agosto 2010 alle ore 08:54.
«È così divertente credere in Dio!». E ancora: «Mi piace la compagnia dei monaci, delle suore e dei credenti di ogni genere e mi sono sempre sentito a casa tra le persone di quella fascia. Io non so esattamente perché, so soltanto che rende le cose più interessanti».
A fare simili dichiarazioni davanti a una selva di microfoni è stato un cantautore che sicuramente molti miei lettori conoscono, ma che io ho incrociato per caso solo perché anni fa il mio amico Roberto Vecchioni gli aveva intitolato una canzone: era Leonard Cohen dell'album Milady del 1989. Lo stupore in me era cresciuto quando avevo scoperto che la «Garzantina» della letteratura gli riservava una voce lunga quanto quella dedicata a Bob Dylan. Sì, perché questo «little Jew who wrote the Bible», come lui stesso si autodefinisce, nato nella canadese Montreal 76 anni fa, è stato anche un apprezzato poeta e romanziere. E domani sarà in concerto a Firenze per l'unica tappa italiana del suo tour.
Ora, finalmente, so quasi tutto di lui perché un infaticabile cultore dei nessi espliciti e segreti tra Bibbia e cultura contemporanea come Brunetto Salvarani, coadiuvato da Odoardo Semellini, un esperto di musica della sua stessa città, Carpi, ne ha offerto un ritratto capace di fondere insieme filologia e divertissement, documentazione e narrazione, testo ed emozione. Un po' come il protagonista Cohen, che ha sempre cercato di intrecciare nel suo pensare, scrivere e cantare spirito e corpo, mito e storia, mistica e amore, sacro e profano, ma soprattutto Dio e uomo, avendo sempre accesa nel suo cielo la stella della Bibbia, cibo quotidiano della sua famiglia di ebrei mitteleuropei e stemma di un cognome così impegnativo (come è noto, in ebraico, kohen è il «sacerdote»).
Certo, la sua religiosità è iridescente come un arcobaleno e i vari capitoli di questo profilo ne sono il riflesso, affidati a una trama di citazioni, di episodi, di testimonianze che non lasciano varco alla noia o alla distrazione. Basti solo evocare una canzone la cui simbolicità è già nel titolo, «Hallelujah», sì, il termine dei Salmi e della liturgia. Si tratta di una manciata di minuti (oscillanti tra i quattro e i sette delle due versioni da lui approntate) che, però, fanno scrivere a un critico di Repubblica (che immagino "laico"), Gino Castaldo: «È una canzone di tale bellezza che da sola varrebbe una carriera».