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Questo articolo è stato pubblicato il 01 settembre 2010 alle ore 08:33.
Ad accompagnarla sul red carpet ci sarà un giovane reduce della guerra in Iraq che, dopo aver tentato il suicidio, oggi si guadagna da vivere trasportando i box per le fototessere, ultima mania dei giovani americani, da un party all'altro. Come due star del cinema, la giornalista del Tg1 Monica Maggioni e il soldato dell'esercito americano Kris Goldsmith saranno al Festival di Venezia per presentare il documentario Ward 54, fuori concorso nella sezione Controcampo italiano.
Un progetto che per Maggioni, "embedded" con l'esercito americano in Iraq nel 2003, è la chiusura di un cerchio. E forse anche la fine di una polemica che la insegue da allora, e che vuole l'"embedded" come un giornalista incapace di vedere e raccontare le cose: «Una delle prime notti a Baghdad ero su una camionetta con due soldati. Guardavo i loro volti spaesati e mi chiedevo come si possa continuare a vivere dopo un'esperienza come quella. Quando sono tornata negli Stati Uniti nel 2008 per seguire la campagna elettorale di Obama ho trovato la risposta». Si chiama Kris, ha 25 anni ma ne aveva 16 quando, all'indomani dell'11 settembre e con il sogno di fare il soldato, è partito per una guerra che considerava una missione. Il protagonista della storia vera di Ward 54 fa in Iraq quello che chiameremmo "lavoro sporco": fotografa i cadaveri degli iracheni. Fino al giorno in cui l'obiettivo intercetta una fossa comune.
Da allora i fantasmi dei civili ammazzati non lo lasceranno in pace. Si ammala di Ptsd (disturbo da trauma da combattimento) e tenta il suicidio. «Secondo un'inchiesta pubblicata ad aprile da Army Times – ricorda Maggioni – ogni mese ci sarebbero 950 tentativi di suicidio tra i veterani». Quella di Kris però è una storia a lieto fine. Un viaggio che la reporter milanese ha seguito, tappa dopo tappa, e che si concluderà a casa della meno fortunata famiglia Lucey. Il figlio Jeff, anche lui reduce e malato, ha perso la sua guerra personale contro i fantasmi e si è tolto la vita. «È stato terribile sentire i genitori di Jeff ripetere "non sapevamo cosa stava succedendo laggiù" perché io lo sapevo, io ero a un passo da quel ragazzo che consegnava il suo futuro al demone della guerra». Non c'è giudizio morale nel documentario , ma la consapevolezza che se è vero che la guerra è comunque un'esperienza traumatica, quella in Iraq, per una generazione per cui i conflitti sono argomenti da manuali di storia, lo è ancora di più. «Solo un certo tipo di professionisti riescono ad affrontarli e troppi giovani vivono l'arruolamento come un surrogato di lavoro». Una piaga contemporanea che porterà il mondo in Laguna. (S. Da.)