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Questo articolo è stato pubblicato il 01 settembre 2010 alle ore 08:32.
Per uno che era stato fermamente dissuaso dal parroco dal continuare la carriera da chierichetto per aver rischiato di incendiare la chiesa nel giorno di esordio, girare un film intitolato La passione suona come una rivincita. «Ricordo che avevo appena preso in mano il turibolo e con un colpo solo avevo fatto cascare tutto l'incenso – ridacchia Carlo Mazzacurati –. Ma alla storia del film ci sono arrivato per caso. La passione è la metafora della caduta e della riscossa dal dolore di una scomparsa o da un fallimento in generale. Io ne parlo da laico, da un punto di vista umano».
La passione – in concorso alla 67esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia il 4 settembre e nelle sale dal 24 – racconta la vicenda di un regista, Gianni Dubois, esordiente alla tenera età di cinquant'anni, impaludato in un'impotenza creativa e finanziaria, perseguitato dalla sfortuna. Una perdita d'acqua in una casa in Toscana, acquistata per amore di una fidanzata di passaggio, rischia di rovinare un affresco del Cinquecento in una chiesa limitrofa e di far pendere una denuncia sul capo del regista. Precipitatosi nel paesino per correrre ai ripari, Dubois si trova incastrato da una serie di eventi a fare la regia della processione. L'impegno finisce per cozzare e far fallire i progetti di lunga data, ultima speranza di carriera per Dubois. Ma quando tutto sembra perduto, arriva una svolta.
«Non è un film autobiografico – precisa Mazzacurati –. Certo, ho avuto anch'io i miei periodi difficili, ma in realtà questa passione voleva essere la metafora del momento storico che stiamo vivendo, di un Italia confusa, che ha dimenticato le sue radici profonde e che vive in superficie». Nel film il protagonista si rialza. «Credo fortemente nella capacità del nostro popolo di compiere uno scatto di reni. Basta ricordare l'intelligenza politica e commerciale della repubblica veneziana, quando ci siamo ripresi dalla miseria del Dopoguerra, quando con l'emigrazione del meridione si è formato un tessuto linguistico-connettivo, materia fondante del boom economico degli anni Sessanta».
E ora? «Ora no, ci stiamo facendo annebbiare da fenomeni appariscenti, superficiali. Abbiamo perso anche la nostra componente solidale. Credo che potremmo capire questo periodo storico solo più avanti. Ora il fondo è sabbioso e io, personalmente non riesco a essere uno specchio del presente. Posso al massimo intuire qualche cosa di questa difficile epoca come un rabdomante, in modo inconsapevole. Sono sicuro solo che non abbiamo ancora toccato il fondo». Ad impersonare il regista che ha ormai perso la passione e l'ispirazione ed è schiacciato dall'umiliazione è Silvio Orlando. «Era perfetto per la parte, con quella sua aria dubbiosa e incerta». Beppe Battiston, invece, è Ramiro. «Ramiro è il faro di quella compagnia di disgraziati che segue il regista. Su di lui convergerà tutta la compassione». Un tratto che ricorre spesso nei caratteri di Mazzacurati. «Per me la compassione è un elemento imprescindibile delle storie umane. La pellicola ha degli aspetti tragicomici. Chi l'ha vista ha riso, ma con affetto. Ci si avvicina così tanto ai personaggi che la risata non è solo liberazione, ma quasi una dimostrazione di solidarietà».