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Questo articolo è stato pubblicato il 01 settembre 2010 alle ore 08:32.
Alcune osservazioni sul programma, e su altro. Non sui film, che non si sono ancora visti, ma sì sullo stato del cinema, e sull'impostazione del Festival (dall'1 all'11 settembre) che azzarda più di altri, accettando tutte le regole di un gioco sempre più povero e più noioso. Non vale discutere i nomi dei giurati e del loro presidente, per la semplice ragione che rispondono alla confusione primaria, alla scena primaria: un insieme piuttosto casuale di bravi e di stolti, ma preferibilmente nella veste di funzionari del cinema piuttosto che in quella di artisti.
I mediatori contano più di tutto, nelle arti odierne, in tutte. Hanno in generale sostituito i critici, che non contano più niente se non si trasformano anch'essi in funzionari di questa o quella squadra o banda riconosciuta, di questa o quell'impresa, di questo o quell'ente. E tanti artisti si sono fatti anche mediatori, terminali di organizzazioni e istituzioni piuttosto che artisti e tanto meno studiosi. Alla loro testa c'è stavolta, perché no, un autore che riporta il cinema alle sue origini baracconesche, da luna-park, però dentro le logiche dei massimi investitori, dei grandi gruppi finanziari.
I film vanno di conseguenza: di tutto di più è la regola di tutti i festival, e chi più ne acciuffa più ne metta, ma quest'anno c'è in Muller un'accentuazione nuova per la presenza o invadenza o valanga del cinema italiano. Non c'è probabilmente nessun film italiano pronto che sia rimasto escluso dal calendario. A occhio e croce, sono diverse decine i registi italiani accolti dal festival. Quanta grazia! Di molti di loro c'è da dubitare che udremo ancora il loro nome in futuro, così come abbiamo dimenticato quasi tutti quelli della foresta di esordienti degli ultimi anni. Venezia è una delle poche chances che hanno di farsi conoscere: nell'era della massima invadenza del mercato, semplicemente non hanno mercato oltre quello dei festival e delle rassegne. Bisognerebbe vedere tutti quelli realizzati negli ultimi anni, ma ce ne vuole di stomaco!, per avanzare un'analisi dello "spirito del tempo" italico. Nonostante le differenze hanno in comune l'illusione che fare un film sia un valore in sé, anche se nessuno dovesse vederlo. Molti vengono realizzati con forti contributi di enti pubblici, e non sempre sono i più interessanti e i più liberi. Molti, all'altro capo della sfilata, con soldi propri, se gli autori ne hanno. I produttori sono mediatori, non rischiano niente. Così i funzionari. Gli autori sì, e molte loro opere sono autarchiche o semi-autarchiche: antica arte d'arrangiarsi, scatenata da un discutibile bisogno (o frenesia) di esprimersi, foriero quasi sempre di nuove e più grandi frustrazioni.