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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2010 alle ore 17:49.
Un gioiello. Senza se e senza ma, Meek's cutoff di Kelly Reichardt (già apprezzata per gli ottimi e un po' ostici Wendy and Lucy e Old Joy) si candida fin da ora a un premio importante di questa 67^ Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Ci vuole un coraggio al limite dell'incoscienza per pensare e realizzare un film del genere, almeno pari a quello dei pionieri che vuole raccontare. Meek's cutoff, basta curiosare su internet, si potrebbe tradurre come il taglio, la scorciatoia di Meek. La storia è vera- e nella realtà a lieto fine- e riguarda una carovana che vede delle famiglie staccarsi per percorrere una scorciatoia che il suddetto Meek (un clamoroso Bruce Greenwood) dice di conoscere. Dopo una ventina di minuti davvero difficili anche per lo spettatore più allenato, ma di fatto funzionali alla storia, il film decolla grazie ad attori straordinari- chapeau per il giovane Paul Dano, sempre più bravo e per una Michelle Williams finalmente misurata e non irritante, ma anche per Shirley Henderson, Zoe Kazan e soprattutto Will Patton- e a una regia che non ha paura di tempi e spazi dilatati e che si muove con maestria e impietoso talento all'interno di un'opera magistrale. La Reichardt, pur cadendo sulla figura dell'indiano-guida (troppo ritagliata sul mito del buon selvaggio), sa ritrarre, con complessa e profonda semplicità, questi pionieri del West in tutta la loro (dis)umanità.
Il lontano West era meta di avidità e conquista per nuclei familiari spesso aridi e bigotti, che in questi viaggi davano il meglio e il peggio di sé. Se infatti ci volevano una forza e un impeto straordinari per decidere di partire alla volta di terre sconosciute, affrontare odissee tra polvere e sete per migliaia di chilometri, in loro c'è anche tutta la meschinità di chi, per esempio, cerca una scorciatoia per anticipare i compagni sull'occupazione delle nuove terre. È il 1845, il deserto sugli altipiani è il luogo in cui viene demolito ciò che John Ford e John Wayne ci hanno inculcato con i loro western spacconi e appassionanti, la propaganda del Far West. Qui la Reichardt è così brava che sentiamo addosso la paura, la sete, la rabbia, la repressione e la depressione di tre famiglie che cercano la nuova frontiera, ma anche se stesse. Campi lunghi e primi piani- mai troppo stretti- si alternano per raccontarci con i dettagli la metafora di un'epoca che ha, probabilmente, condizionato tutta la mentalità occidentale e, di sicuro, quella statunitense. Qui non abbiamo battute feroci da segnarsi e ripetere- anche se la Williams modello Sergio Leone ne tira fuori due niente male- ma silenzi e sudore, disperazione e follia neanche troppo latente. L'unione fa la forza, ma quando quest'ultima viene a mancare, crolla la fiducia e le comunità si dividono: la Reichardt ci racconta anche quegli istinti atavici dell'uomo che mai abbiamo abbandonato, così come ci mostra che la necessità abbatte i pregiudizi. Non arrivano mai i nostri, e i, anzi le cowboy, ci mettono un minuto e mezzo per ricaricare. E scopri che puoi minacciare di morte un tuo simile per difendere il tuo nemico, se da questo dipende dalla tua vita. Il cinema ha bisogno di autrici che hanno il coraggio dei pionieri, tanto lucide e visionarie da riuscire a regalare pellicole su cui nessuno, ora, scommetterebbe. Per questo la nostra gratitudine va anche a Vania Traxler Protti- celebre l'aneddoto di lei che a un regalo costoso preferì il farsi comprare dal marito un film- e alla sua Archibald, che porterà in Italia Meek's cutoff. Film come questi, troppo spesso, si perdono nei ricordi di critici e cinefili. Ora, presto, gli spettatori italiani potranno (e se vogliono un cinema diverso e possibile, dovranno) vederlo. Un'impresa straordinaria, come la ricerca della nuova frontiera. Altro che John Wayne.