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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2010 alle ore 08:05.
di Luigi Sampietro
Si dice che quando qualcuno avvicina Naipaul per un'intervista, sia lui a porre la prima domanda al malcapitato di turno. Sempre la stessa: «Lei ha letto tutti i miei libri?». Se la risposta è negativa, la conversazione trova una rapida fine. Naipaul è un artista che ha il culto di quel che un tempo si chiamava "il Vero"; e, soprattutto, un sacrale rispetto del lavoro – proprio e altrui – inteso come contributo alla «fabbrica della civiltà». Ha sempre affermato che la storia è fatta di iniziative e di risultati ma che nelle West Indies, da dove proviene, non è mai stato creato nulla. E si è fatto odiare dai suoi ex concittadini.
Si è trasferito a Oxford all'età di 18 anni – per diventare uno scrittore, per costruire qualcosa – e, dopo essersi sposato una prima volta, nel 1955, è sempre vissuto nella campagna del Wiltshire. Ha però viaggiato il mondo, e per trovare le proprie radici indiane ha messo insieme un paio di libri sul sub-continente dei suoi antenati che ha descritto come un Paese in cui poche cose funzionano e in cui la visione nazionalista di Gandhi è spesso degenerata nel fatalismo e nella passività. Perché l'India – ne è convinto – è un Paese troppo antico e presuntuoso per vedersi con occhi nuovi. Apriti cielo! La reazione dei lettori illuminati è stata furibonda e, nel caso dei suoi correligionari, anche poco induista.
L'ultimo libro di Naipaul, The Mask of Africa, è uscito in Inghilterra la scorsa settimana. Le polemiche non sono mancate: anche con la stessa Winnie Mandela, che nei mesi scorsi ha addirittura negato, secondo alcuni giornali scandalistici, di avere mai parlato con il Nobel o sua moglie. Robert Harris lo ha recensito sul «Sunday Times» stracciandosi le vesti. Ma forse non ha capito che lo scopo e il metodo di Naipaul non è quello di denigrare per partito preso – ideologico o politico –, bensì di descrivere le cose che vede e trascrivere le testimonianze degli individui che incontra. Non ci sono solo i sacrifici cruenti, la sporcizia delle conglomerazioni urbane, i gatti vivi nel pentolone dell'acqua bollente; gli abusi dei tiranni, le vite spezzate, il rancore e l'odio. L'Africa che Naipaul voleva conoscere – la sua spiritualità primitiva – è rievocata davanti a una bancarella su cui sono esposte teste di cavallo e altri pezzi di animali. Siamo in Sudafrica: «Non c'era nemmeno l'ombra, qui, della bellezza che avevo trovato in Nigeria presso il popolo yoruba, con il suo culto della natura; niente di simile all'idea gabonese di energia collegata alla meraviglia delle grandi foreste. Qui c'era soltanto la magia nella forma più elementare, fine a se stessa, da cui niente poteva nascere».