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Cultura-Domenica Arte

Murakami, re di Versailles

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Questo articolo è stato pubblicato il 13 settembre 2010 alle ore 14:28.

Arte kitsch al castello di Versailles. È la seconda volta: dopo la personale di Jeff Koons, che ha suscitato tanto scandalo, il direttore Jean-Jeacqus Aillagon insiste. E propone – con il curatore Laurent Le Bon – le fantasmagorie ludiche e futuribili di Takashi Murakami (1963), geniale continuatore giapponese dello spirito pop.

Non è la prima volta che l'arte contemporanea entra nell'antico palazzo, ma gli interventi precedenti avevano avuto un carattere di commento all'architettura di Le Notre che insieme ne rispettava la classicità e ne sottolineava l'intento di generare meraviglia: si pensi al trucco prospettico e visivo grazie a cui Daniel Buren aveva fatto percepire lo specchio d'acqua antistante alla reggia come una superficie obliqua. Con Koons e Murakami, invece, si sommano due eccessi, cioè l'estetica del Re Sole e quella del tardo impero occidentale in cui ci troviamo a vivere.

Assolutismo nascente e capitalismo avanzato mettono insieme i loro giochi di luce, entrambi tesi ad abbagliare. Versailles era nata per rinchiudervi una corte che non doveva disturbare il potere assoluto, dove le donne erano costrette a esibire scollature abissali di fronte a brocche in cui gelava l'acqua; le opere che vi arrivano oggi sono riletture sintetiche del mondo della vetrina, in cui il desiderio di essere notati per soldi, gambe o politica è tale che si è disposti a pagarlo con un ictus precoce.

In teoria non c'è troppa contraddizione, quindi, tra le opere supervisibili di questi artisti e il contenitore che le ospita. Anche se è chiaro che il motivo che spinge a creare queste occasioni espositive non è tanto culturale, quanto rivolto al pubblico: più scandalo genera il contrasto apparente tra luogo e mostra, più saranno i biglietti staccati. Si potrebbe pensare che Versailles non abbia bisogno di un surplus di attenzione, ma il suo gusto raffinato oggi risulta di fatto stucchevole a chi non sia appassionato di storia o di architettura. Anche i siti più belli hanno bisogno di risvegliare l'attenzione e lo fanno come possono, spesso chiamando in causa un'arte contemporanea che oggi, diversamente che in anni severi come i Settanta, è disposta a fare la parte del prezzemolo.

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Murakami a Versailles e intanto Milano resta a guardare

Per il terzo anno consecutivo un artista contemporaneo viene ospitato alla reggia di Versailles.

Tags Correlati: Arte | Borsa Valori | Daniel Buren | Hello Kitty | Jean-Jeacqus Aillagon | Jeff Koons | Kaikai Kiki & Co. | Laurent Le Bon | Louis Vuitton | Oval Buddha | Peter Greenaway | Re Sole | Takashi Murakami | The Falls

 

Detto questo, Murakami non va sottovalutato. Il suo approccio alla cultura contemporanea è più complesso di come appare all'inizio, quando si guardano i suoi oggetti-giocattolo che sembrano monumenti alla vacuità, come l'enorme colonna-fungo-vaso che accoglie il visitatore nell'atrio del castello. I suoi colori e i suoi materiali ripetono quelli dei gadget. Il primo livello di comunicazione è un'attrattiva infantile, adatta al contesto urbano, fatta per l'usa e getta e ricopiata da successi planetari nell'ambito dell'inutile come il brand Hello Kitty. Lui stesso ha deciso di fondare nel 2001 un logo a cui corrisponde una fabbrica, la Kaikai Kiki & Co., dal nome dei due personaggi stile manga che si ripetono su dipinti, portachiavi, pelouche, sculture e prodotti singoli o multipli per portafogli a fisarmonica.

Kaikai e Kiki non sono i protagonisti di una saga sciocca, però. Sono due esseri polari (maschio e femmina, bene e male, yin e yang: l'identificazione esatta della contrapposizione non ha importanza). Sono due esseri mutanti che, come i protagonisti di The Falls di Peter Greenaway, sono stati colpiti da un trauma probabilmente atomico e recano insomma le conseguenze di un futuro disastro. Come tutta la poetica di Murakami, la cui famiglia è scampata alla bomba di Nagasaki per un caso, sono inni alla capacità di sopravvivenza malgrado tutto, incluso il vento tossico del consumo in cui l'artista si immerge e da cui si distanzia continuamente: è stato tra i disegnatori di una fortunata rilettura del logo Louis Vuitton, per esempio, così come di alcune borse di Marc Jacobs. Lui stesso ha invaso il mercato con oggetti firmati Mr. Dob, come a creare un marchio che ironizza sui sistemi di comunicazione della merce ma al contempo li usa.

Accanto a questo, non ha mai smesso di disegnare e realizzare oggetti unici – come quelli che si trovano a Versailles – che si potessero fregiare del titolo di opera d'arte. Tra questi, anche i famosi adolescenti con caratteri sessuali accentuati e occhi ingenui, come Hiropon (1997) e My Lonesome Cowboy (1998), che spargono latte e sperma fertilizzanti e gioiosi. In altri casi Murakami ha prodotto funghi che ricordano quello atomico, ma che, come Kaikai e Kiki, vivono in allegria con la coscienza di non essere normali ma di potere, anzi dovere portare avanti la vita. Sono esseri di un mondo che è diventato superficiale, senza profondità, senza pensiero: «Superflat», non a caso, fu il titolo di una mostra sulla nuova arte giapponese curata, in veste di organizzatore, dall'artista medesimo.

Ma in quel termine sta un'ulteriore chiave di volta del lavoro: Murakami ha un curriculum scolastico chilometrico tra cui figura anche un dottorato; ha studiato pittura tradizionale giapponese nihon-ga, quella che toglie le ombre e appunto appiattisce tutto per rendere più sintetico il suo messaggio, meno attaccabile dal tempo e quindi più universale. E il messaggio è quel paradosso orientale in cui tendiamo a riconoscerci sempre più: tutto passa, anche se tutto resta simile a com'è. Il mondo fluttua e ciò che resta è appunto l'impermanenza. Murakami mette insieme nel suo lavoro la sua tradizione passata e il presente, così come a Versaiiles la sua storia e la nostra. Ci ripete una favola che in effetti ci ha già raccontato Eraclito e che gli inganni visivi di Versailles hanno già dentro, ma lo fa in modo più appariscente: niente mai sarà più come prima. Gli animi, così come i luoghi del potere, cambiano di città e continente assumendo forme e simboli diversi. In tutto questo, l'uomo utilizza strutture psicologiche ricorrenti. Un Oval Buddha (2007) non è così distante da un Vitello d'Oro e quest'ultimo da un'automobile fiammante, un paio di scarpe, un idolo e un rito che ci consola. Non sarà saggio né ortodosso, ma funziona.

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