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Cultura-Domenica Arte

Alla faccia del Bronzino

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Questo articolo è stato pubblicato il 19 settembre 2010 alle ore 18:19.

Che il Diario compilato da Jacopo Pontormo fra il 1554 e il 1556, pur nella sua monotonia, possieda un certo fascino, è indubbio. Questa pedante, ossessiva autobiografica ha il carattere di una cartella clinica, che registra il decorso pressoché liturgico delle fasi della giornata di un ipocondriaco, qual era il grande pittore toscano, spinto sull'orlo della nevrosi. Pontormo vi annota meticolosamente i pasti quotidiani e l'esame delle feci.

A dire il vero, benché fosse schivo e una volta rientrato nella sua «casuccia da uomo fantastico e solitario» (Vasari) tagliasse i ponti con il consorzio umano, non erano poche le persone che frequentava, ma nessuna con l'assiduità di Agnolo Bronzino, suo discepolo, che gli era legato da riconoscente affetto. Con lui Pontormo era solito desinare e cenare: «La sera cenai con Bronzino popone e uno pipione, e la mattina di poi mi sentii male e parevami aver la febbre»; «a dì 21 che fu berlingaccio cenai con Bronzino la lepre». Ciò accadeva il 21 febbraio 1555, quando Pontormo aveva più di sessant'anni e il Bronzino qualcuno di meno, essendo nato a Firenze il 1503. Ma dell'indole di Bronzino non sappiamo quanto di quella del Pontormo sulla base di ciò che traspare dal Diario, tuttavia non è azzardato immaginare anche del Bronzino un carattere difficile e poco lineare. Ne trapela qualche tratto dai suoi componimenti poetici, che dopo essere stati gravati dal giudizio poco lusinghiero della critica letteraria, ora si tenta di rivalutare. Stanno a metà fra uno stile petrarchesco di maniera e uno stile bernesco, che rivela l'inclinazione burlesca dell'autore, come leggiamo nel Capitolo de' romori, sintomo di un'attenzione al verismo che parrebbe opporsi alla fulgida e distillata eleganza che rifulge nelle ben più ragguardevoli opere pittoriche.


Al Bronzino Firenze dedica una grande mostra monografica, curata da Antonio Natali e Carlo Falciani, ideata insieme a Cristina Acidini, mostra che abbraccia l'intero percorso del pittore, dagli esordi nella bottega di Pontormo, agli anni Sessanta del Cinquecento, quando – specie nei dipinti di soggetto sacro – Bronzino vira verso un fare assai meno forbito e puro di quello che aveva manifestato nei momenti migliori, cambiando stile, poco dopo il 1560, sotto la spinta di ripensamenti religiosi.

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La critica si è scagliata con parole dure contro la tarda produzione sacra dei quadri d'altare, «freddi e grevi» (Venturi), dove il michelangiolismo s'impone senza ritegno nell'aggrovigliarsi dei corpi e nel tendersi spasmodico dei muscoli. Ma se è vero che l'ultimo Bronzino non eguaglia quello dei superbi ritratti degli anni quaranta, e ancor meno quello degli stupendi affreschi della cappella di Eleonora di Toledo in Palazzo Vecchio (1540-1546), va detto che il nuovo fare un po' retorico d'intonazione controriformistica è all'altezza dei tempi. In ogni caso, la sua accensione anticipa la grande stagione dell'ultimo cinquecento fiorentino, nella quale l'arte di soggetto sacro tocca il vertice della verità, per esempio in un maestro dell'altezza di Santi di Tito che al Bronzino dovette molto.


Nel percorso della mostra l'opera di Bronzino è messa sotto la lente d'ingrandimento, al pari di come egli fece con i personaggi cui eseguì i ritratti. Essi si fissano nella memoria con indelebile determinazione, ed è giusto domandarsi perché rimangano così impressi nella mente di chi li guarda. Certo per la smagliante qualità della pittura: combinazione adamantina di segno e di colore, dove il disegno è definito quanto lo sono i contorni dei cammei e il colore è uno smalto di consistenza minerale. Tutto contribuisce a conferire alle figure uno sbalzo pressoché scultoreo. Nel loro uscir fuori dalla tela o dalla tavola queste figure paiono assolutamente vive, ma nello stesso tempo lontane. Probabilmente il pittore le concepì «per l'eternità», ossia perché rimanessero presenti nel prolungarsi della memoria oltre il tempo della vita. Sono immagini di persone di corte, vive, ma come già trapassate. Si osservi quel capolavoro estremo che è il ritratto di Eleonora di Toledo, sposa del duca Cosimo I de' Medici, con il figlioletto Giovanni: l'alone che si diffonde alle spalle di lei è il fondale atto a suscitare un controluce, voluto affinché tutto appaia più nitido e reale, ma nel contempo oltrepassi la mera contingenza storica. Qualcosa di simile avviene nel profilo tagliente della poetessa Laura Battiferri, moglie del grande architetto Ammannati, che per la finezza del profilo assomiglia a un ibis eburneo proveniente dall'antico Egitto. Mentre Lucrezia Panciatichi, consorte di Bartolomeo Panciatichi, che essendo in odore di eresia finì nelle grinfie dell'Inquisizione, nel suo atteggiamento e ieratico apparentemente assorto lascia sfuggire una stilla di malinconia, fuoriuscita dall'urna di cristallo del contegno.


La stupenda serie dei ritratti di Bronzino non la si può non veder sfilare nei labirinti del grande Manierismo toscano, pena cancellare il Manierismo come categoria storica e culturale. Però non si può dar torto ai curatori della mostra, i quali ritengono che in Bronzino, come scriveva Longhi, «si possono scorgere frammenti o residui di una vena naturalistica», o come – con uguale acume – Federico Zeri notò che nei ritratti del pittore, messi a confronto con quelli del Manierismo internazionale della metà del cinquecento, «ciò che alla fine resta è un doppio documento, poetico dell'artista e umano del soggetto raffigurato». Bronzino infatti non pone mai sul medesimo piano di valore la figura umana e le stoffe che indossa. La ricerca dell'umanità dei personaggi raffigurati è il lievito della sua tendenza al naturalismo, che lo conduce a divertirsi, da intellettuale raffinato al servizio del duca Cosimo, quando dipinge il ritratto del Nano Morgante, opera che rimase a lungo segregata nei depositi degli Uffizi, come copia di un originale citato da Vasari e che si credeva perduto. Il restauro compiuto in occasione della mostra ha confermato che quella presunta copia altro non è che l'originale.


Il Nano è ritratto nudo, in piedi, «con quella stravaganza di membra mostruose», visto davanti e di dietro, sul recto e il verso della medesima tela. Nell'Ottocento il quadro fu censurato e trasformato in un Bacco con il sesso coperto da fogliame. In origine era esposto in mezzo a una sala, poiché, nella sua sfacciata sfaccettatura, Morgante simula la tridimensionalità della scultura, visibile girandole attorno. Ma più di una scultura questo quadro ha la facoltà di narrare due momenti successivi della stessa azione: l'andata e il ritorno trionfale di Morgante dalla caccia.
Qui Bronzino insiste più sul realismo delle «membra mostruose», che sull'artificio virtuosistico della finzione. In tal senso voleva che fosse, prima di tutto, il realismo a stupire.
Ma in quell'esempio di palese "isteria" che è la celebre Allegoria di Londra (non esposta in mostra per ovvie ragioni), il pittore sembrerebbe aver momentaneamente perduto l'interesse per la realtà delle cose e concedersi il lusso di una «squisita e sfrenata» (Cecchi) mistura di figure in conflitto fisionomico fra loro, dove l'artificio ha sicuramente il sopravvento sulla verità.

«Bronzino. Pittore e poeta alla Corte dei Medici», Firenze, Palazzo Strozzi, 24 settembre-23 gennaio 2011.
Catalogo Mandragora.
Info: www.palazzostrozzi.org

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