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Questo articolo è stato pubblicato il 19 settembre 2010 alle ore 18:18.
Litterae non dant panem, la scrittura non paga. Lapidari quant'altri mai i latini liquidavano la faccenda in un motto valido per ogni tempo e latitudine. Perché gira che ti rigira c'è poco da fare: nella maggior parte dei casi per dedicarsi all'arte dello scrivere occorre arrangiare altrimenti la focaccia.
E il paesaggio della narrativa italiana novecentesca almeno in ciò può dirsi pienamente cosmopolita. Anche se spiccano comunque due vene carsiche.
Da un lato ci sono gli scrittori che non svolsero mai — o quasi — professioni altre rispetto al lavoro autoriale o editoriale. Potevano essere giornalisti, collaboratori di case editrici o addirittura editor anzitempo: ma non finirono per "sporcarsi le mani" con qualcosa di assai distante dalla parola.
Fra di essi si contano alcuni dei più grandi: Calvino, Moravia, Arbasino, Malerba, Carlo Levi, Pirandello, Elsa Morante, Vitaliano Brancati, Tondelli e molti ancora. Senza dimenticare la fitta schiera dei traduttori-autori, capitanata da Pavese e dalla sua allieva Pivano. Forse non basta a dire che per scrivere bene occorre non timbrare il cartellino — o quantomeno nascere in una famiglia agiata, cosa questa che accomuna non pochi — ma è comunque un dato significativo. Resta nel solco anche l'esperienza di attore e drammaturgo e Nobel Dario Fo.
Dall'altro lato abbiamo un rigoglioso battaglione di "scrittori lavoratori" veri e propri.
Una premessa: pochi autori nostrani possono mostrare curricula sconvolgenti come quelli di Jack London (fiociniere sull'Artico, lavandaio e cercatore d'oro), Joseph Conrad (marinaio, e commerciante) di Céline (direttore di una piantagione di cacao in Africa e poi medico dei poveri), o di George Orwell (poliziotto in Birmania e sguattero nei ristoranti parigini) o del più recente ed eclettico Raymond Carver (anche falegname e fattorino).
Ma le cicatrici del mestiere con cui campare non mancano fra i narratori della Penisola. L'esempio più eclatante è forse Primo Levi, che lavorò nel campo chimico fino alla pensione. Prima impiegato e poi direttore della Siva, ditta di vernici nel torinese: nonostante il grande riscatto letterario avuto fra gli anni Cinquanta e Sessanta, non abbandonò mai la sua professione — e anzi onorò l'arte dell'operaismo specializzato nel suo romanzo La chiave a stella.