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Quando Zavattini fece «Epoca»

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Questo articolo è stato pubblicato il 19 settembre 2010 alle ore 17:42.

Sessant'anni fa, il 14 ottobre 1950, usciva il primo numero di «Epoca». A conquistare i lettori del nuovo settimanale Mondadori sono i grandi reportage, i grandi fotografi e una rubrica, «Italia domanda», firmata da Cesare Zavattini. Con la passione che lo contraddistingue, il padre del Neorealismo sogna di offrire ai lettori e agli intellettuali un'occasione di incontro. E per i primi quindici numeri del giornale, ci riesce. Nascono pagine memorabili, che abbiamo voluto rileggere per ricostruire un capitolo illuminante, quanto dimenticato, del nostro giornalismo e del nostro Paese.

In origine doveva chiamarsi «Il Disonesto». Chi era costui? Nell'Italia del 1946 e nella visione lucida, ironica di Cesare Zavattini il disonesto è un uomo che vuol sapere e fa domande, un magnifico rompiscatole che a forza di chiedere e curiosare esce dai limiti dell'onestà di regime. A questo nuovo eroe del dopoguerra, Za vuol dedicare non una rubrica, come sarà poi destino, ma un intero giornale e quasi riesce a convincere Valentino Bompiani, il suo editore. Ma già sul titolo c'è da discutere. Si riparte, nuova proposta: «Italia domanda». In una pagina del suo diario, Zavattini appunta: «Questo giornale a me pare di una formula nuova in tutto. Si tratta di un settimanale che può dirigere l'opinione pubblica. Come? Ho a disposizione un trust di cervelli che rispondono a tutte le domande che l'Italia rivolge loro. Noi aiuteremo gli Italiani a pensare, a essere autonomi, a colloquiare con la loro coscienza. Il sogno è che arrivi un ciclone di lettere, da tutta Italia, che noi si sia una clinica delle coscienze, che noi si contribuisca a portare fuori questo popolo dall'asservimento a qualsiasi idea preconcetta». La partenza è prossima, ma di nuovo è una falsa partenza. Ennio Flaiano, in redazione, ribattezza il giornale «Italia rimanda». Passano gli anni, escono Sciuscià, Ladri di biciclette, premio Oscar, insieme a De Sica, Bellissima, insieme a Visconti, Prima comunione, insieme a Blasetti e quando nella mente del Maestro si affaccia l'idea di «Miracolo a Milano», ecco ripresentarsi un'occasione propizia: Alberto Mondadori ha in cantiere un nuovo settimanale, «Epoca». Zavattini, allora consulente Mondadori, recupera l'antico progetto, vitalissimo anche in formato rubrica e questa volta si parte davvero. Saranno le prime dieci pagine del giornale, sarà «un'enciclopedia vivente, un'inchiesta incessante, sarà l'uomo moderno, scomposto in tutti i suoi interrogativi. Fare una domanda sarà un atto sociale, come pagare le tasse». Accanto a Za, una schiera di 300 "raccoglitori", incaricati di registrare ogni quesito, e altrettanti "risponditori", e tra i nomi appaiono quelli di Giuseppe Ungaretti, Indro Montanelli, Michelangelo Antonioni, Thomas Mann, Vittorio de Sica, Goffredo Petrassi, Giulio Andreotti, Alfonso Gatto, Massimo Bontempelli, Bruno Zevi, Maria Montessori, Carlo Carrà, Alberto Savinio, Sandro Penna, Alberto Cavallari, Francesco Saverio Nitti.

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A Zavattini, nel comitato editoriale di «Epoca», spetta il compito di «mettere in moto il motore delle domande, che è sempre mancato in Italia». Sul primo numero, rovesciando gli schemi come suo solito, Za, anni 48, sceneggiatore, scrittore, giornalista, pittore, risponde al signor Igrino S., anni 58, funzionario dell'archivio municipale di Napoli, «seccato per la domanda e per essere stato interrogato per strada». «Perché dovrei lambiccarmi il cervello con degli interrogativi quando c'è tanta gente che non ha proprio niente da fare e se ne può occupare in vece mia?», si chiede il malcapitato. Splendido, da primo attore, l'affondo di Zavattini: «Lei mi spaventa, le sue parole suonano inappellabili come una dichiarazione di guerra. Ma lei non si è accorto che al fondo della sua indignazione c'è proprio una domanda. Suo malgrado lei diventa dei nostri. Perché lei è un uomo importante, ed è importante socialmente parlando. Pensi che lei, per esempio, mentre Mussolini parlava il 10 giugno 1940 a Piazza Venezia, poteva interromperlo. Lo poteva veramente come tanti altri milioni di uomini non meno importanti di lei. Sarebbe stato memorabile che il signor Igrino improvvisamente avesse gridato: non è vero. Ebbene, anche oggi lei può alzarsi e dire non è vero a chi e quando vuole. Basta che lei non si apparti in mezzo ai suoi guai, i quali non vengono fuori dal niente. Ma non ci si può appartare, non lo tenti neppure. Non c'è nessuno spazio vuoto, siamo tutti dentro un solo tessuto che in qualunque punto sia toccato vibra istantaneamente in ogni altra sua parte».

Le vibrazioni non tardano a farsi sentire. Centinaia di lettere inondano gli uffici di via Bianca di Savoia, a Milano. La rubrica è un successo, e le sue pagine passano furiosamente di mano in mano, come ricordava Beniamino Placido, «a casa nostra era una gara a chi le leggeva per primo». Gli italiani, come liberati da ogni censura, chiedono di tutto: se esiste un pericolo fascista, se risorgeremo con lo stesso corpo, se a scuola è necessaria la severità, se in America c'è la disoccupazione, se è giusto che Massimo Bontempelli guadagni meno di un salumiere, se risponde a verità «che Massimo Girotti è iscritto al Pci?»; e ancora «perché mai la donna è tenuta in condizioni di inferiorità?», «chi è il Diavolo?», «perché il Führer porta il cappotto con il bavero rialzato?», «perché non si impedisce l'ingaggio di giocatori stranieri nelle nostre squadre?», e poi «ore 21: può uscire la domestica?», «è dannoso il boogie woogie?», «perché una ragazza per dirsi per bene deve ostinatamente dire no a un uomo che pure le piaccia?», e rialzando il tono, «che ne è del piano Fanfani?», e infine, dubbio meravigliosamente folle, «sapreste dirmi se è vero che le scarpe nere fanno più male ai piedi delle scarpe gialle?». Per questo tipo di domanda Zavattini sceglieva sempre Alfonso Gatto e le sue risposte non lo deludevano mai. Le scelte del direttore, invece sì. Dopo quattro numeri iniziano i primi disaccordi. Il giornale, lamenta Za, «è sotto la lapide degli americani». In un editoriale, Alberto Mondadori si dichiara anticomunista. A gennaio del 1951 arrivano le dimissioni. «Io non sono comunista – spiega Za – ma è ancora più certo che non sono anticomunista». Nessuno sbatte la porta. Si esce, con eleganza. In una lettera, parte dell'Archivio Zavattini conservato con straordinaria cura nella Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, Cesare Zavattini rassicura Alberto Mondadori: «Tu sai che mi puoi domandare un parere, anche frequente, su "Epoca" e io te lo darò sempre, di notte, di giorno, per telefono, in qualsiasi momento. E tu sai che sarà sempre, se non il più illuminato, certamente il più sincero di tutti». Zavattini, magnifico, coerentissimo "risponditore", in primo luogo a se stesso. Del resto in una missiva ai collaboratori di "Italia domanda", il grande giornalista aveva precisato: «Occorre che gli italiani comincino a chiedersi ragione di quello che fanno nella loro vita associata e nei loro rapporti civili; e prima ancora di quello che fanno nella loro vita privata che è poi la regola e la misura della loro vita pubblica». Domanda: di quale Italia, di quale epoca sta parlando Za?

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