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Questo articolo è stato pubblicato il 20 settembre 2010 alle ore 14:35.
L'oceano, un palazzo del cinema, una città ricca di cultura. Difficile chiedere qualcosa di più a un festival, se ai bei film unisci l'amore per il cibo e la vita di questa terra basca che in questo fine settimana ha vissuto momenti emozionanti. In sala, grazie a quattro film molto speciali; in strada, per la manifestazione politica composta e appassionata di molti giovani contro le misurie carcerarie restrittive riservate ai detenuti dell'ETA; allo stadio, dove Mourinho è venuto a battere con il suo Real Madrid la gloriosa Real Sociedad, squadra di casa (che qui ha persino un museo!) che ha mostrato coraggio e carattere.
Gli stessi che sembra avere la selezione di Mikel Olaciregui, direttore del 58° Festival di San Sebastian, in sella da 9 anni e 10 edizioni. La rassegna, ricca di anteprime mondiali, ma anche di una sorta di greatest hits dell'anno che pesca dai festival più importanti, con una particolare attenzione a Sundance e Toronto (ma è da Cannes che arriva l'unico italiano, nella sezione Zabaltegi-Nuevos Directores: «Le quattro volte» di Michelangelo Frammartino), ci ha già portato un poker niente male. Film profondamente diversi, ma tutti con una loro forza e una cifra stilistica, estetica ed etica originale e appassionante.
Così è inevitabile che si cominci con El grande Vàzquez (in concorso e nelle sale spagnole dal 24 settembre), un tuffo nel mondo dei fumetti, ma anche in una Spagna che reprimeva la sua vitalità nell'ottusità marziale delle regole franchiste. Manuel "Manolo" Vàzquez fu un imbroglione che visse d'espedienti geniali ma, nella stessa vita, seppe anche divenire uno dei più grandi disegnatori iberici, grazie a cult, ormai dimenticati come lui (troppo scomodo e anarchico?), da «Le sorelle Gilda», a «La famiglia Cebolletas» passando per Anacleto.
E il Tìo Vàzquez, irresistibile ometto sempre impegnato in furbi stratagemmi e precipitose fughe, strisce chiaramente autobiografiche che gli costarono, probabilmente, la persecuzione legale del regime, che usò i suoi inganni per reprimere e incarcerare anche il suo talento. E tanto ne ha anche Oscar Aibar, regista un po' incosciente che con questo biopic rischioso, in cui rende il "fumettaro" un eroe da fumetto, in cui si sbizzarisce con una bella, ma mai sufficiente, animazione, e ricostruisce il decennio tra '50 e '60 con colorata creatività, racconta un po' di se stesso e del periodo in cui apprendista disegnatore ebbe come maestro Vàzquez, scagliandosi contro il moralismo benpensante e i sistemi produttivi soffocanti dell'arte. Un film rigoroso e anarchico, ribelle e apolitico contro chi sopporta male il genio e ne denuncia, opportunisticamente, la sregolatezza