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Questo articolo è stato pubblicato il 20 settembre 2010 alle ore 22:32.
Nel corso del 2009 televisioni e giornali hanno mostrato la faccia migliore del Sudafrica per propagandare un'immagine positiva del paese alle porte dei mondiali di calcio di quest'anno.
Molto diverso è stato l'approccio dell'universo cinematografico che, nello stesso periodo, ha invece raccontato controversie e problemi della nazione dove venne istituito l'apartheid.
Prima c'è stato «District 9», film dell'esordiente neozelandese Neill Blomkamp, che ha rappresentato la segregazione razziale attraverso la metafora dell'arrivo degli alieni su Johannesburg; poi ci si è messo addirittura Clint Eastwood che in «Invictus» parte dalla scarcerazione di Nelson Mandela e, passando per la sua elezione a presidente, arriva a raccontare la vittoria sudafricana nella Coppa del Mondo di rugby del 1995 come simbolo del successo della politica di Mandela stesso.
Decisamente meno nota rispetto a questi due è la pellicola tedesca «On the Other Side of Life», vincitrice della quindicesima edizione del Milano Film Festival.
Diretto dagli esordienti Stefanie Brockhaus e Andy Wolff, il film è incentrato attorno alla vita di Lucky e Bongani, due fratelli adolescenti che vivono nella periferia di Città del Capo.
Costretti ad abitare in una baracca, i due condividono tutto: dal letto al cibo fino a un'accusa di omicidio.
La grande differenza fra questa pellicola e le altre, con protagonista il Sudafrica, sta nel fatto che «On the Other Side of Life» è un documentario.
La coppia Brockhaus-Wolff segue i due protagonisti dai giorni trascorsi in carcere fino al compimento del rito d'iniziazione verso l'età adulta, consumato in cima a un'alta collina insieme agli anziani della loro comunità.
Sentiamo i commenti di Lucky e Bongani che raccontano alla cinepresa la loro vita, li vediamo mentre cantano felici e mentre hanno momenti di sconforto.
La modalità documentaristica da una parte dà una spruzzata d'originalità sulla rappresentazione del Sudafrica al cinema, dall'altra è però il grande limite che questo film ha.
Mancano di spontaneità tante sequenze in cui i due protagonisti parlano e discutono con i loro coetanei e conoscenti. La presenza della macchina da presa non dovrebbe sentirsi nei documentari, la vita dovrebbe procedere come se nessuno la stesse filmando, ma questo non avviene quasi mai in «On the Other Side of Life».