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Cultura-Domenica Ventiquattro

Ogm politicamente corretti

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Questo articolo è stato pubblicato il 30 settembre 2010 alle ore 10:37.

In difesa delle coltivazioni geneticamente modificate, da luglio liberalizzate anche in Europa

L'agricoltura geneticamente modificata (gm) è oggi presente in 25 paesi ed è estesa su quasi 135 milioni di ettari, concentrati prevalentemente in otto nazioni: Stati Uniti, Argentina, Brasile, India, Canada, Cina, Paraguay e Sud Africa; di questi, due soli (Stati Uniti e Canada) appartengono al gruppo dei paesi ricchi, gli altri sono variamente classificabili tra le economie emergenti o i paesi in via di sviluppo. Per converso, in Europa, le coltivazioni gm interessano 100mila ettari, collocati per la maggior parte in Spagna.

Oltre 12 milioni di agricoltori nel mondo fanno uso di sementi gm e molte centinaia di milioni di consumatori da decenni acquistano e si nutrono di cibo prodotto con quelle sementi. In tutto questo periodo e in tutti questi stati non vi è stato un solo caso accertato, anche a livello di mera probabilità, di danno all'ambiente o di danno alla salute provocato dalla coltivazione, dall'utilizzazione o dal consumo di prodotti agricoli gm. Questo, naturalmente, non significa che i prodotti contenenti gm siano necessariamente esenti da pericoli (come, del resto, non sono necessariamente innocui i prodotti alimentari non gm).

Proprio per questo l'immissione sul mercato di sementi o prodotti contenenti gm avviene nei vari paesi con regole e procedure diverse e di diverso rigore, ma tutte rivolte a indagare eventuali effetti tossici, allergenici e nutrizionali sulla salute umana, ed eventuali effetti di contaminazione o inquinamento nell'ambiente circostante ai luoghi di produzione o di alterazione o perdita della biodiversità. Solo a seguito dell'esito positivo di queste indagini (che durano spesso anni), il prodotto riceve l'autorizzazione all'immissione nell'ambiente.

Tenendo conto dell'accelerato sviluppo del mercato dei prodotti gm e dei vantaggi che essi arrecano in termini di maggiore produttività e di riduzione dell'inquinamento provocato dai pesticidi chimici, nel luglio di quest'anno la Commissione dell'Unione europea ha deciso di liberalizzare le esistenti procedure di approvazione per la coltivazione di sementi gm con il dichiarato obiettivo di sbloccare l'esame delle numerose richieste ferme dal 1998: due soli prodotti gm sono stati approvati in Europa negli ultimi dodici anni, a fronte di oltre 150 autorizzati all'immissione sul mercato a livello mondiale. Tuttavia, con lo stesso provvedimento e come evidente contropartita, la Commissione ha riattribuito agli Stati membri il potere di valutare discrezionalmente se ammettere nel proprio territorio la coltivazione di prodotti gm.

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La restituzione del potere agli Stati è criticabile sotto tre profili. Prima di tutto perché costituisce un'incrinatura dei principi del mercato unico europeo. Poi perché permette agli Stati membri di accantonare le valutazioni scientifiche compiute in sede di approvazione per seguire ragioni di opportunità politica o per assecondare la propria opinione pubblica. Infine perché rischia di riportare l'Unione europea in rotta di collisione con i paesi ove le coltivazioni gm sono da anni ammesse senza destare particolari problemi.

Già una volta infatti questi ultimi hanno chiamato l'Unione europea di fronte all'Organizzazione mondiale del commercio (Omc) al fine di far accertare l'illegittimità delle restrizioni frapposte al libero scambio di prodotti gm, regolarmente autorizzati nei paesi di origine. Nel 2006 l'Omc ha dichiarato illegittimo il comportamento dell'Unione europea, perché le restrizioni introdotte non erano giustificate da positivi accertamenti di carattere scientifico sulla pericolosità dei prodotti gm per la salute o per l'ambiente.

È certo tuttavia che con questa decisione la Commissione Ue ha ancora una volta rimarcato la "diversità" dell'Europa in materia.
È una diversità provocata da ragioni di varia natura. Non solo di carattere culturale e religioso: a differenza di altri paesi c'è infatti una diffusa, sospettosa insofferenza verso l'innovazione tecnologica, prodotta da una ridotta accettazione dei rischi, e soprattutto dei rischi nuovi, ai quali sono preferiti i rischi conosciuti, e in genere assai più dannosi, provocati dall'impiego di tecnologie vecchie. C'è poi la tradizionale politica protezionistica agricola europea. Non dimentichiamo infatti che poco meno della metà dell'intero bilancio comunitario è dedicato a sussidi e sovvenzioni all'agricoltura.

Sono queste le ragioni che sorreggono l'improbabile e multiforme alleanza degli oppositori ai prodotti gm, cui partecipano molte organizzazioni ambientaliste, movimenti fondamentalisti di derivazione religiosa o puramente conservazionista, organizzazioni no global e poi truppe di movimenti anticapitalistici, in sintonia con movimenti nazionalisti e regionalisti. Tutti uniti dal conclamato comune obiettivo di combattere le multinazionali dei prodotti gm.

Lo spettro delle multinazionali nell'agricoltura non è nuovo. Negli anni Venti e Trenta dell'altro secolo era evocato da coloro che si opponevano all'introduzione di trattori e macchine agricole: Ford e International Harvester - le multinazionali del settore a quell'epoca - avrebbero emarginato i contadini poveri e (com'è in effetti avvenuto) la filiera produttiva legata all'uso del cavallo.

In realtà il nemico non sono più da tempo soltanto Monsanto o Syngenta. Da anni sono sorti, in paesi con economie emergenti come il Brasile, l'India, la Cina, il Sud Africa, ma anche la Nigeria e l'Indonesia, centri di ricerca per lo più pubblici per sviluppare prodotti gm adatti alle specifiche condizioni climatiche locali: resistenti quindi in climi aridi o semiaridi oppure in aree monsoniche. I destinatari sono milioni di agricoltori poveri che vivono spesso al di sotto del livello di sussistenza, in quelle aree.

C'è poi, come potente alleato, la filiera agroalimentare che si fonda sulle tecnologie agricole tradizionali, i pesticidi e i fertilizzanti chimici (questi sì dannosi alla salute e all'ambiente e alla biodiversità), le organizzazioni politico-sindacali che rappresentano agricoltori e allevatori e poi i settori dell'amministrazione pubblica e i gruppi politici che rappresentano i diversificati interessi economici che su questa filiera convergono. Per tutti costoro, il nemico sono il mercato e la concorrenza: i prodotti gm rischiano di destabilizzare il virtuosistico gioco di prestigio istituzionale-giuridico-economico su cui si regge il sistema agroalimentare dei paesi ricchi dell'Europa, e di sgretolare, nell'ampia marea della globalizzazione, il precario equilibrio protezionistico sostenuto al prezzo di enormi sussidi pubblici.

Dando ascolto a questa alleanza, l'Unione europea, e specificatamente gli Stati pronti ad avvalersi della facoltà di rifiutare i prodotti gm, rischiano di restare ai margini di uno dei settori scientificamente più promettenti e, soprattutto, di non partecipare alle grandi scelte globali dell'agricoltura del futuro.
La soluzione è diversa ed è quella di garantire la tutela della salute e dell'ambiente mediante una corretta applicazione del principio di precauzione. Questo significa che esso non deve essere inteso, come pure molti sostengono opponendosi alle coltivazioni di prodotti gm, come un divieto di ogni attività di cui non sia dimostrata, anche nel lungo periodo, l'innocuità per la salute e per l'ambiente: si tratta di una concezione abnorme, che avrebbe certamente impedito l'introduzione dell'elettricità e del motore a scoppio.

Invece il principio di precauzione, come definito dal punto 15 della Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992, stabilisce che «in caso di rischio di danni gravi o irreversibili, la mancanza di certezza scientifica non deve consentire di posporre l'adozione di misure adeguate ed effettive dirette a prevenire il degrado dell'ambiente». In altre parole, per impedire in via cautelativa la coltivazione di prodotti gm sarebbe richiesta la concreta e non puramente teorica esistenza di un rischio. E 15 anni di coltivazione su milioni di ettari e centinaia di milioni di consumatori offrono una più che ragionevole certezza in merito alla loro innocuità per l'ambiente e per la salute.

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