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Gli Ottanta delle meraviglie

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Questo articolo è stato pubblicato il 03 ottobre 2010 alle ore 08:06.

C'è un decennio della nostra storia recente che non è mai passato. Un decennio nel quale l'Italia è diventata il paese che conosciamo, nel bene e nel male. L'età di una nuova adolescenza collettiva che sembrò dare alla nazione nuova energia e vitalità ma da cui non ci siamo mai davvero emancipati, riuscendo nel contro-miracolo di invecchiare senza mai diventare adulti. Gli anni Ottanta sono stati anche questo, almeno per l'Italia. E a quel decennio decisivo Marco Gervasoni, giovane storico di talento, dedica una storia interpretativa che merita di essere letta come un breviario per gli anni Zero del nostro nuovo secolo (Storia d'Italia degli anni Ottanta, Marsilio, pagg. 250, € 14,00, in libreria dal 7 ottobre).

Lungo il percorso di questo libro scopriamo infatti che l'Italia del 2010 è ancora densamente popolata dalle immagini che si definirono in quegli anni lontani ma che nel frattempo si sono fatte più stanche, stoppose, senili. Immagini che non sono solo quelle della televisione commerciale o della personalizzazione della politica, come vuole la convenzione più diffusa, ma anche quelle di un vitalismo di massa che oggi si è corrotto in indignazione tribale e di una rivendicazione dei poteri dell'individuo che si è rovesciata nel particolarismo e nella fuga dalla responsabilità.

«Quando eravamo moderni», suggerisce Gervasoni nel sottotitolo al volume. Ed effettivamente gli anni Ottanta sono stati l'ultimo decennio in cui l'Italia si è immaginata all'avanguardia della modernità occidentale, prima di avviarsi su un piano inclinato di percezioni sempre più cupe dal quale non sembra capace di uscire.

Quell'autorappresentazione tanto ottimistica fu forse un abbaglio, come avvertirono da subito gli "apocalittici" che denunciarono le storture di decennio che sembrò aprirsi all'insegna dell'egoismo e del cinismo? In realtà la critica che allora fu rivolta allo spirito degli anni Ottanta nasceva in parte dalla nostalgia per il tempo appena perduto dei Settanta, ma era soprattutto legata alla solida presa sul paese di subculture che consideravano il guadagno un peccato da espiare. Subculture «organicistiche e anti-individualistiche di diversa matrice (fascista, collettivista, cattolica) che non avevano certo impedito, anzi rafforzato la ricerca del "particolare": una forma di egoismo a breve termine assai diversa dall'individualismo modernamente inteso».

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Fuori dalle categorie ideologiche, il decennio nuovo vide affermarsi per la prima volta in Italia una società degli individui che riuscì a incrociare i flussi nascenti di quella che poi avremmo chiamato "globalizzazione". E che allora inserì il nostro paese in un circuito mondializzato di consumi massificati che coinvolse e stravolse la quasi totalità delle aree geografiche e dei gruppi sociali d'Italia. Diversamente da quanto era accaduto con il boom degli anni Sessanta (impropriamente accostato al «nuovo miracolo economico» degli Ottanta) che invece aveva toccato prevalentemente le aree urbane con una marcata differenza tra provincia e grandi centri urbani e tra Nord e Sud. E già qui il lettore non può evitare di domandarsi quanto sia rimasto dell'Italia di quegli anni nei consumi dei nostri anni Zero. Anche questi dominati dalla massificazione dell'accesso al mercato, che naturalmente non si è mai invertita, eppure afflitti anche nei comportamenti commerciali da una divaricazione quasi irreversibile tra un Nord sempre più europeizzato e un Sud sempre più ripiegato su se stesso.

Se negli anni Ottanta l'esplosione dei consumi sembrò omogenea, fu anche per il modo nuovo con il quale l'universo delle merci venne presentato a tutto il paese. Si trattò della rivoluzione dell'advertising, fino ai Settanta chiuso dentro un universo rigido di manifesti e stampa periodica mentre in televisione «l'agenzia pubblicitaria legata alla Rai, la Sipra, esercitava un monopolio che filtrava anche secondo criteri morali e di convenienza al costume i prodotti da pubblicizzare». La televisione commerciale cambia tutto, ovviamente, e non solo nell'impatto sui consumi. Perché, come scrive nel 1983 un entusiasta Umberto Eco, «il tempo della neo tv è un tempo elastico, con strappi, accelerazioni e rallentamenti» mentre «con la paleo tv c'era poca roba da vedere». Ma oggi, quasi trent'anni dopo, non sarà un caso se ci stiamo rifugiando tutti sul satellite in cerca di «roba da vedere» che non troviamo più nel pastone grigio e monopolistico che nel frattempo è diventata la «neo tv»?

Anche in questo caso il confronto tra le promesse di quel decennio e la realtà dei nostri anni Zero è impietoso, e non certo a nostro vantaggio. Non lo è se guardiamo a quei livelli di sviluppo e consumo e alla novità della nuova televisione degli anni Ottanta, ma soprattutto non lo è nello spirito pubblico di quella che sembrò «una nazione di individui desiderosi di uscire dalla crisi perché sentivano il paese pronto a incamminarsi in un orizzonte nuovo». A dispetto di tutte le chiacchiere sul tramonto delle identità ideologiche, la speranza di un «orizzonte nuovo» pervase anche le mobilitazioni civili che in quel decennio furono numerose e innovative.

A partire dal nuovo pacifismo che, sebbene strumentalizzato dall'ultimo Pci berlingueriano, mostrò una composizione ideale ricca di «individualismo, pragmatismo e dialogo (i valori del riflusso) contro il collettivismo, la politica ideologica e la violenza collettiva che nel decennio appena trascorso avevano tenuto banco»; passando per il mondo cattolico, che conobbe una potente ventata di movimentismo di origine wojtyliana, e per finire con le prime mobilitazioni di un nuovo ceto medio che esprimeva insofferenza antifiscale e antistatalista in forme del tutto inedite per la storia repubblicana. Un movimento, quest'ultimo, che avrebbe preparato il terreno al localismo politico (e dunque all'insorgenza delle Leghe) e che in quella seconda metà degli anni Ottanta fu clamorosamente snobbato da una politica che si avviava a un catastrofico scontro con il paese reale.

D'altra parte in quegli stessi anni Ottanta non erano mancati i sintomi del bisogno sempre più forte di una politica diversa, espressi da un corpo nazionale che si sentiva sempre meno rappresentato. Gervasoni ricorda l'enorme successo popolare della presidenza di Sandro Pertini, che «da vecchio e intuitivo animale da piazza socialista aveva colto il livello preoccupante dello scollamento tra gli italiani e la politica». E vi aveva risposto con un'eloquenza, una gestualità e una comunicazione del tutto diverse da quelle dei paludatissimi predecessori.

Una strategia fatta di infrazioni continue al protocollo e gaffe ben studiate, esibita familiarità con i media televisivi e movimentismo decisionista che incontrò da subito il favore di un'opinione pubblica che si preparava ad affondare la prima repubblica.

Gianfranco Miglio coglieva un punto di verità quando nel 1984 scriveva che «Pertini si muove perché nel paese c'è una sensibile carenza di potere decisionale». Non sia mai che ci si azzardi qui ad accostare il «Presidente degli italiani» e quel Cavaliere che dieci anni dopo avrebbe preso il potere con una strategia mediatica, movimentista e irriverente. Certo, questo possedeva e possiede e controlla i media dai quali pontifica mentre quello possedeva solo la propria pipa e il proprio rango istituzionale.

Eppure la distanza che separa Pertini e Berlusconi, al di là dell'abisso tra le due storie personali, ricorda piuttosto quella che corre tra una promettente novità appena sbocciata e la sua declinazione ripetuta e declinante. Che è poi la stessa distanza che separa ciò che contribuì a dare freschezza agli anni Ottanta e che oggi, in versione uguale ma senile, incarna il senso di oppressiva stanchezza di questi anni: dalla spettacolarizzazione della politica ai festival culturali di massa, dai talk show ai comici indignati, dal salutismo al localismo. Anche per questo, guardando agli anni Ottanta, viene da pensare che in fondo «si stava meglio quando si stava peggio»: ai tempi di un decennio forse cinico e individualista, ma certamente ricco di quella speranza che non sembra più abitare nell'Italia del 2010.

Tra cronaca e politica1980
- Il decennio parte all'insegna di eventi tragici: le Brigate Rosse uccidono il magistrato Vittorio Bachelet e il giornalista Walter Tobagi.
- Il 27 giugno esplode in volo nei pressi di Ustica un aereo dell'Itavia: muoiono 81 persone.
- Il 2 agosto una bomba esplode nella stazione ferroviaria di Bologna (85 morti e oltre 200 feriti).
- Iniziano a Milano le trasmissioni regolari di Canale 5, tv privata di proprietà di Silvio Berlusconi.
- Il 14 ottobre i quadri intermedi della Fiat scioperano, in opposizione ai sindacati. È la marcia dei 40mila capeggiata da Luigi Audisio.
- Gli anni che verranno saranno chiamati del "riflusso".
- Il 23 novembre un terremoto in Irpinia provoca la morte di quasi 3mila persone.

1983
- Le elezioni politiche di fine giugno vedono la Dc al 32,9 per cento e il
Pci al 29,9 per cento.
- Il voto porta il 4 agosto alla Presidenza del consiglio il leader socialista Bettino Craxi. È il primo Governo repubblicano a guida socialista. Craxi decide di dispiegare in Sicilia, a Sigonella, gli euromissili della Nato a testata nucleare, nonostante la protesta del movimento pacifista.

1984
- Bettino Craxi e il segretario di Stato Vaticano, Agostino Casaroli, firmano il nuovo concordato fra l'Italia e la Santa Sede.
- Il Parlamento abolisce la scala mobile.
- L'11 giugno muore Enrico Berlinguer, gli succede alla guida del Pci Alessandro Natta.
- Dopo la decisione di un giudice di Roma di oscurare i canali televisivi della Fininvest, Craxi presenta un decreto legge su cui pone la fiducia. È il «decreto Berlusconi» che consente la ripresa delle trasmissioni oscurate.

1989
Al congresso del Pci il segretario Achille Occhetto propone un rinnovamento all'insegna del riformismo della sinistra europea.
I dissidenti Alessandro Natta, Pietro Ingrao, Armando Cossutta e Fausto Bertinotti si oppongono alla svolta. Cossutta fonderà nel 1991 Rifondazione Comunista.

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