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Questo articolo è stato pubblicato il 03 ottobre 2010 alle ore 08:06.
di Roberto Duiz
È stato John Steinbeck a battezzare Mother Road la lunga strada, che dall'industriale Chicago, Illinois, scendeva arzigogolando incerta a sud fino a svoltare quasi improvvisamente e puntare decisa in direzione dell'Oceano Pacifico, per andare a morire sulla spiaggia di Santa Monica, California. In realtà si chiamava Route 66 ed era stata inaugurata ufficialmente nel 1926, dopo che era stato gettato asfalto sulle tracce lasciate dai carri dei pionieri dell'epopea del secolo precedente per fungere da prima passerella alla celebrazione del trionfo dell'automobile. Quando Steinbeck ne percorse ampi tratti, pochi anni dopo, quella "festa" era già finita. Ed era cominciata un'altra epopea, quella degli Okies della Grande Depressione, che da est e da nord si rinfilavano nel grembo di Mamma (appunto) America per provare a resettare la propria vita e andare a rinascere con più fortuna nella Terra Promessa, che come da manuale mitologico stava sempre a ovest. Intitolò The Grapes of Wrath, lo scrittore, il frutto letterario di quel suo tampinamento di anime vagabonde, che nella traduzione italiana fu, più semplicemente, Furore. John Ford ne trasse un film che non sfigurò nei confronti del romanzo. Contemporaneamente, su quella strada c'era Woody Guthrie, che le stesse storie raccoglieva per restituirle in forma di ballate. Quel trittico letterario-cinematografico-musicale compone dichiaratamente lo zoccolo duro dell'immaginario e dell'ispirazione di Bruce Springsteen, figlio della highway culture americana, il cui brano giovanile più celebre si intitola The Promised Land e le cui canzoni sono spesso percorse da automobili che trasportano outsiders d'ogni specie e provenienza. Quasi inevitabile, dunque, che una volta rallentata la sua corsa, dopo il travolgente (anche per lui) successo rock di Born in the Usa, ritrovando il passo più narrativo e intimo del folk, finisse per trovarsi a ripercorrere quella vecchia strada, per affiancarsi a Tom Joad, protagonista di Furore e capostipite dei suoi personaggi: operai e disoccupati, hobos e reduci di guerra, fuorilegge e sognatori.
A ricostruire l'itinerario di Bruce, artistico, culturale ed emozionale, dà un sostanzioso contributo Marina Petrillo con Nativo americano (Feltrinelli). Vedendolo sul palco durante la tournée di The ghost of Tom Joad ('95), con la chitarra acustica in grembo e quella elettrica lasciata chiusa nella custodia, l'autrice scrive: «Il movimento rallentato e faticoso dei personaggi di questi concerti sembra percorrere l'arteria 66 di Furore, il grande itinerario dei popoli nomadi, sul quale le famiglie migranti si spostavano come tribù in un esodo biblico…». In mezzo ci sono gli scioccanti libri-inchiesta e reportage americani degli anni '80 e '90, che dimostrano come quell'umanità non si sia estinta con il New Deal ma ciclicamente si riproduca, anche se sceglie altri itinerari. Perché nel frattempo la Route 66 era caduta in stato d'abbandono, rimpiazzata da highway più scorrevoli fino a essere ufficialmente decertificata e cancellata dalle mappe stradali. Per essere riscoperta, infine, dalla metà degli anni Ottanta in poi, ridotata di segnaletica e via via resa di nuovo percorribile per intero, non più come main street qual'era stata, ma come sorta di museo a cielo aperto dei simboli e dei miti a cui gli americani non intendono rinunciare. Ripopolate le cittadine che sembrano set cinematografici e che erano diventate ghost-town, riaperti motel, diners e distributori con insegne al neon che sembrano opere di pop-art spontanea. Non c'è itinerario americano che racconti meglio l'America, evocando letteratura, cinema e musica on the road. Curioso che il compito tocchi proprio a quella strada lungo la quale l'American Dream ha cominciato a vacillare.