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Questo articolo è stato pubblicato il 07 ottobre 2010 alle ore 20:15.
Tutto si può dire tranne che la musica, nell'epoca della sua reperibilità on line, sia diventata prevedibile. Perché certi miracoli, a ben guardare, accadono ancora. Sentite qua: un compositore classico, contemporaneo di Debussy e Ravel, passato a miglior vita due anni prima che Hitler invadesse la Polonia, sull'altra sponda dell'oceano converte al suo songbook un'icona vivente della controcultura hippie, mentre qui in Italia spinge in Top Ten un album in cui l'orchestra più antica del mondo accompagna il più autoironico tra i nostri jazzisti.
E forse quella del miracoloso è proprio la categoria giusta da tirare in ballo, dal momento che il compositore in questione è George Gershwin, il più popolare e (per questo) influente tra gli autori novecenteschi, uno la cui opera è stata declinata in tutti i linguaggi musicali possibili, a volte fino a raggiungere punte di straordinaria eccellenza artistica, altre del tutto a sproposito.
Godibilissimi e fortunati gli ultimi due episodi del genere: da un lato Brian Wilson, l'umbratile band leader dei solari Beach Boys, reinterpreta in stile «Pet Sounds» alcune delle pagine più note del maestro newyorkese in «Brian Wilson reimagines Gershwin» (Emi); dall'altro il funambolico pianista toscano Stefano Bollani incontra la Gewandhausorchester di Lipsia diretta da Riccardo Chailly, incide per la Decca una versione filologica di «Rhapsody in Blue» e nelle prime due settimane staziona tra l'ottava e la nona posizione dell'hit parade pop italiana. E cioè tra Phil Collins e i Maroon 5.
Gershwin, sia da vivo che da morto, di miracoli ne ha fatti eccome. Miracoli commerciali, a partire dal milione di copie subito vendute a metà degli anni Venti dalla prima versione della «Rapsodia» americana, per l'esecuzione del committente Paul Whiteman, fino ad arrivare alle oltre 2.500 diverse incisioni di «Summertime», l'inconfondibile tema dell'opera «Porgy and Bess». E i miracoli artistici non sono da meno, se consideriamo la monumentale versione di «Porgy and Bess» di Luis Armstrong ed Ella Fitzgerald, quella selvaggia e dissacrante di Miles Davis, più gli standard pescati qua e là nelle oltre settecento composizioni del corpus gershwiniano da fuoriclasse del calibro di Billie Holiday, Gerry Mulligan e John Coltrane, per poi spingersi in territori musicali molto lontani dal jazz come il rhythm and blues di Sam Cooke e il rock ad alto tasso etilico di Janis Joplin.