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Questo articolo è stato pubblicato il 07 ottobre 2010 alle ore 08:06.
«Grande arte in provetta»: così il comitato dei Nobel ha cercato di rendere più poetica la scoperta a cui ieri ha assegnato il Nobel per la chimica: tre reazioni di accoppiamento ossidativo che utilizzano il palladio come catalizzatore. I vincitori sono tre anziani ricercatori, lo statunitense Richard F. Heck (università del Delaware in Newark, 79 anni, in pensione), il giapponese Akira Suzuki (Hokkaido University, a Sapporo, 80 anni, in pensione) ed Ei-Ichi Negishi (della Purdue University, nell'Indiana, 75 anni), giapponese nato a Changchun, oggi appartenente alla Cina. Le tre reazioni, sviluppate in parallelo, portano il loro cognome e sono considerate «uno degli strumenti più sofisticati che oggi la chimica ha a disposizione». Servono a sintetizzare in laboratorio molecole organiche complesse.
Quel che però il comitato dei Nobel non ha sottolineato, e di cui non si trova traccia nella bibliografia da loro fornita, sono le radici anche italiane della ricerca: «Il catalizzatore della reazione di Heck e Suzuki, il composto di palladio zero valente, è stato scoperto nel 1957 da un chimico italiano, il mio professore Lamberto Malatesta, all'Università di Milano – racconta Renato Ugo, presidente dell'Associazione italiana ricerca industriale –. Malatesta è morto un paio di anni fa, e quando ho fatto delle ricerche per ricordarne la figura all'Accademia dei Lincei, 31 anni dopo che aveva individuato questo composto senza sapere che fosse un catalizzatore, c'erano ancora centinaia di citazioni del suo lavoro, e più di cento brevetti a esso collegati». «Heck e Suzuki sono venuti a Milano, e anche all'Istituto Donegani di Novara – continua Ugo –. Negli anni 70 Gian Paolo Chiusoli, ora professore all'Università di Parma, e Luigi Cassar, consulente, lavoravano su temi analoghi, tanto che alcune reazioni sono citate in certi testi come "di Heck-Cassar"». Cassar dice infatti: «Conosco bene Heck. Abbiamo pubblicato alcuni studi assieme, lo invitai a Novara a fare delle conferenze, lui mi invitò a Delaware. Poi le nostre strade si sono divise: mentre lui proseguiva nello stesso campo di ricerca, applicando le stesse tecniche a substrati diversi, io ho continuato a lavorare nell'industria, e dunque in funzione degli obiettivi dell'azienda, non dei miei. Ho lasciato la chimica quando la chimica italiana è stata distrutta». Cassar ora si sta occupando di CO2, da un lato cercando di sviluppare processi o prodotti che ne producano meno, dall'altro tentando di trasformarla in un combustibile attraverso processi fotochimici.