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IL reportage. Delitto e castigo 2010. Ecco come l'idea di giustizia cambia la nostra società

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Questo articolo è stato pubblicato il 15 ottobre 2010 alle ore 16:05.

Dalla prefazione a "Requiem 1935-1940", di Anna Achmatova: «Ho passato 17 mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Un giorno qualcuno tra la folla mi riconobbe, e una donna dalle labbra livide che stava dietro di me si riscosse dal suo torpore e mi domandò all'orecchio: "Ma lei questo può descriverlo?". Risposi: "Posso". Allora una specie di sorriso scivolò su quello che un tempo era il suo volto».

Il gulag degli anni del terrore staliniano non è certamente quello di oggi, anche soltanto per il numero, senza confronto, di persone innocenti che vi erano rinchiuse. Ma un uomo che conosce bene il sistema carcerario russo, Lev Ponomarev, presidente della Fondazione per la difesa dei prigionieri, non esita a usare la stessa parola per descrivere le isole di terrore che chiamano «press zona», veri centri di tortura concepiti per fare pressione sui reclusi e spezzarli. «Ex dissidenti sovietici e altri che hanno sperimentato il sistema penitenziario prima del 1991 – racconta – mi dicono spesso che le condizioni in cui vivono i prigionieri sono sensibilmente peggiorate rispetto agli anni Settanta, o anche al periodo immediatamente successivo a Stalin» (1).

Un gulag divenuto più crudele dopo l'avvento al potere di Vladimir Putin, nel 2000, man mano che tornava a ridursi l'influenza degli attivisti per i diritti umani, e la possibilità di controllo sul sistema. Libero di ripiombare nel buio. «Rendete pubblica la vostra storia, non lasciatevi inghiottire dall'oscurità», è il consiglio di Yana Yakovleva, un'imprenditrice che ha conosciuto il carcere e ora dirige un'associazione, Biznes Solidarnost, impegnata a denunciare una giustizia troppo spesso indegna del proprio nome.

La sola cosa che infastidisce i procuratori, i giudici, i funzionari, le guardie e i miliziani corrotti sono le voci che rompono il silenzio. Silenzio che sembra poesia nel nome di uno dei carceri più infami di Mosca, Matrosskaja Tishina, "il silenzio del marinaio". Qui è rinchiuso Mikhail Khodorkovskij, ora che un secondo processo lo ha riportato a Mosca dai lontani confini con la Cina, dal campo di isolamento di Chita, Siberia. La responsabile della squadra che gestisce le relazioni esterne per Khodorkovskij e Platon Lebedev, ex dirigenti della compagnia petrolifera Yukos, ne è convinta: «Se non fosse per l'ampia risonanza che viene data al loro caso, Khodorkovskij e Lebedev sarebbero già stati dimenticati, ormai, forse sarebbero già morti». Ora invece Khodorkovskij è «un simbolo delle deviazioni nel sistema giudiziario russo», una sorta di assicurazione contro la sua scomparsa. Per tanti altri, le voci sono arrivate troppo tardi. Non hanno salvato Vera Trifonova, un'imprenditrice immobiliare accusata di frode, 53 anni.

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Cinque mesi a Matrosskaja Tishina, malata di diabete e di insufficienza renale: è deceduta in aprile, il suo volto sfigurato grida più di ogni parola che una prigione può essere sentenza di morte. Dopo il cedimento di un rene Vera era stata trasferita in ospedale, ma l'emodialisi le venne negata perché si era rifiutata di confessare, e il giudice concluse che non aveva poi bisogno di cure mediche. Così la riportarono in cella. Era in attesa di processo. Come Serghej Magnitskij, 37 anni, avvocato del fondo di investimento Hermitage Capital, un tempo uno dei più attivi in Russia. È morto anche lui a Matrosskaja Tishina, nel novembre 2009. Un anno in attesa di giudizio senza poter vedere la famiglia, e senza ricevere le cure di cui aveva bisogno: è il sistema degli inquirenti per piegare un uomo che si rifiutava di ritirare le accuse di corruzione contro la polizia.

Serghej Magnitskij e Vera Trifonova sono morti perché in Russia l'inferno inizia già un passo prima della soglia del carcere. Qui, dove il castigo è più certo del delitto, il percorso indagini-processo in tribunale-carcere è quasi obbligato: «Diversamente dalle democrazie occidentali – spiega l'avvocato Elena Liptser – in Russia la presunzione di innocenza non esiste». Chiunque venga arrestato andrà in prigione, vi resterà in attesa di giudizio, e nel 99,6% dei casi riceverà una sentenza di colpevolezza. Gli arresti domiciliari o la libertà su cauzione non vanno di moda: in isolamento per settimane senza accesso a un avvocato, oppure in una cella sovraffollata con due metri di spazio a testa, là dove è altissima la probabilità di contrarre tubercolosi, epatite o Aids, un uomo sarà più disponibile a confessare oppure a pagare per tornare in libertà.

«Procuratori e inquirenti non vengono ritenuti responsabili delle proprie azioni», dice ancora Elena Liptser, chi sbaglia non paga: e da un torbido clima di impunità emergono da ogni angolo del Paese le storie degli abusi compiuti durante gli interrogatori da una forza di polizia che oltretutto filtra poco i suoi candidati, costantemente in cerca di personale. È un tunnel dell'orrore: un giornalista picchiato e violentato con una scopa da un poliziotto; due adolescenti a cui due agenti di Pietroburgo hanno cercato di estorcere una confessione con bruciature di sigaretta e sacchetti di plastica stretti sul viso; un poliziotto inquirente che ha sparato all'uomo che stava interrogando (2). Dmitrij Medvedev sta cercando lentamente di cambiare un sistema punitivo e brutale basato sull'annullamento della personalità e sull'assenza di un controllo pubblico o parlamentare.

Molti lo paragonano a Don Chisciotte, e sostengono si tratti di ritocchi di facciata, ma la lista delle riforme piano piano si allunga. Il presidente ha chiesto l'abolizione della detenzione cautelare per i reati economici e la pubblicazione su internet degli atti processuali; ha invocato l'indipendenza dei giudici, promosso una discussione pubblica sulla riforma della polizia; ha annunciato la creazione di una "superagenzia" investigativa indipendente dalla Procura generale, analoga all'Fbi. Sicuramente ci vorrà molto di più e molto più tempo: Medvedev potrebbe andare più veloce, se volesse? E soprattutto, per quanto resterà ancora? Basta che il vento cambi direzione perché cambiamenti ancora fragili vengano spazzati via, come foglie secche.

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