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Questo articolo è stato pubblicato il 16 ottobre 2010 alle ore 06:40.
Non sorprende che un pittore religioso, nel senso più ampio della parola, quale fu Jean-Baptiste Siméon Chardin, abbia suscitato l'ammirazione di un laico del calibro di Denis Diderot, il quale manifestò, nei suoi confronti, una stima entusiastica e piena di trasporto: «Rieccovi, dunque, grande mago, con le vostre composizioni mute! Come parlano eloquentemente all'artista! Quanto gli dicono sull'imitazione della natura, la scienza del colore e l'armonia! E l'aria, come circola intorno a quegli oggetti!». Non esiste giudizio più lucido di questo,espresso da Diderot nel 1765 in occasione del Salon di Parigi.
È chiaro che in Chardin, nato a Parigi nel 1699 e morto nel 1779, Diderot ritrovava la lenticolare capacità di indagare la natura nella finezza dei particolari, quindi un realismo confinante con la scienza, ma i particolari sono accesi da una luce che possiamo dire scaturisca «dal di dentro delle cose», grazie alla quale ogni oggetto, ogni animale finito dalla caccia, ogni persona, ogni interno, i fiori e infine i ritratti, trasferiscono la loro evidenza reale in qualcosa che va oltre il reale: in una dimensione ideale, piena di concretezza ma quasi inafferrabile, custodita nel silenzio, un silenzio per l'appunto religioso, un po' simile a quello monastico, che non astrae, anzi aumenta la consistenza di tutte le cose e ne rende più plastici i contorni.
Chardin è il pittore di una realtà che, nella sua verità, si imbeve di un umore poetico così intenso, per cui si trasfigura. Qui sta il segreto dei suoi trofei di caccia, che nulla hanno da spartire con quelli molto più opulenti, decorativi e d'ostentazione degli Olandesi del secondo Seicento; o delle sue Cucine, ridotte all'essenza di pochi utensili non preziosi, ma neppure del tutto poveri, né adunati con scopi di denuncia sociale, perché in Chardin non c'è la benché minima inclinazione al pauperismo; o delle figure umane, che nella loro silenziosa leggerezza, hanno l'aria di numi tutelari di ambienti domestici; o dei ritratti, che appartengono specialmente all'ultimo periodo della sua lunga attività e di una vita non sempre felice, ritratti mai caratterizzati dalla tristezza, come gli Autoritratti, che infondono in chi li osserva sentimenti di cordialità; o delle varie nature morte di soggetto il più silente possibile, come il Bicchiere d'acqua con bricco del caffè, del 1760, capolavoro dell'arte del Settecento, in controtendenza rispetto al classicismo storico-evocativo che di lì a poco avrebbe invaso sale di palazzi e pareti aristocratico-borghesi, o come il Vaso di fiori, vertice dell'arte moderna, di fronte al quale mi immagino Giorgio Monadi pressoché in ginocchio, così come altri prima di lui, dagli Impressionisti a Van Gogh.