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Questo articolo è stato pubblicato il 26 ottobre 2010 alle ore 13:00.
Entra in scena in controluce. Una dark-lady fasciata in un lungo abito da sera vermiglio, col capo coperto che svelerà un volto pallidissimo, e occhi e bocca vistosamente truccati. Si staglia superba, regale, con posture sghembe da fotomodella. La sua passerella è una pedana di plexiglas illuminata dal basso da luci livide, rosse e stroboscopiche, che rimanda alla forma di una croce. Il trono dove siede è di ferro. E d'acciaio è la parete frontale di questa reggia senza tempo dove lei, Erodiade, furiosamente, confessa un desiderio inconfessabile. L'attrazione vorace, la carne, sono al centro del delirio lucido della regina adultera e blasfema, assetata di vendetta per l'amore negato, descritta da Giovanni Testori. Corpo e spirito come campo di battaglia, conflitto doloroso di domande e passaggi dell'anima che appartengono all'autore prima ancora che alla creatura.
Il monologo, composto nel 1968 e rielaborato nel 1984 per Adriana Innocenti, fu ancora riscritto nel 1993 in una versione "lumbard", parte del trittico testamentario "Tre lai", le confessioni di tre donne dal destino tragico: "Cleopatràs", "Erodiàs" e "Mater Strangosciàs". Ne abbiamo un ricordo ancora vivo nella interpretazione squassante, al festival di Spoleto di sedici anni fa, della Innocenti alla quale furono affidati dallo stesso Testori in punto di morte l'anno prima.
Il regista Pierpaolo Sepe sceglie la prima versione, sfoltendola; e costruisce su, e con, Maria Paiato uno spettacolo di altissima qualità, dove l'intelligente estro inventivo e di scavo è al servizio della parola. Ed è lucida, tagliente, carnale quella che l'attrice ci restituisce della tormentata figura femminile. Donna potente che vede il suo potere vacillare e cadere insieme alla testa di Giovanni Battista, accecata dal suo rifiuto, cova ancora una passione smodata. Devastata dall'attrazione per il profeta, stordita dalla sua fine, dalla sua forza e coerenza, parla al morto santo che non è mai riuscita a possedere in vita come una pazza invasata che si crea il suo delirio, i suoi fantasmi. Parla ma all'inizio a fatica, come se le parole che sta per dire siano, in qualche misura, indecenti. Parla ora a Giovanni, ora all'autore che l'ha voluta "fantoccio di questa recita", ora al pubblico. E svela la sua "passione maledetta" e autodistruttiva mentre racconta, a stazioni, la sua storia di concubina del re Erode, la brama di lui per Salomè, la testa del santo concessa per uno spogliarello della figlia. Ma ad emergere è soprattutto lo scontro fra gli dei astratti, muti, lontani di lei, e il Dio incarnato di Giovanni che è Cristo, carne viva. La sua imprecazione è contro quel Dio che si era messo tra di loro, l'amante spirituale per il quale Giovanni muore.