Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2010 alle ore 17:13.
Che cos'è una fiera d'arte contemporanea? Difficile dirlo in questi anni. Ne è passato di tempo da quando, nel 1967, 18 gallerie si consociarono per dare vita a Colonia alla prima delle fiere moderne: uno stile mutuato dalle mostre-mercato per antiquari, ma con il coinvolgimento diretto di artisti quali Joseph Beuys o Robert Ryman che vi allestirono stand simili a mostre personali. Entro gli anni Settanta, altre gallerie a Düsseldorf, Basilea e Parigi presero la medesima strada, ma è negli anni Duemila, dopo il vorticoso sviluppo del sistema dell'arte e del suo pubblico, che la fiera ha cambiato la sua natura: resta un luogo dove delle gallerie d'arte affittano degli spazi per vendere e comperare opere, of course. Tuttavia il progressivo articolarsi della committenza, con l'attenzione per l'arte negli spazi pubblici, per la sovrapposizione tra discipline e per il coinvolgimento delle città – soprattutto quelle che vedono nella cultura un antidoto alla decadenza dell'industria – ne ha fatto occasioni ibride tra festival e musei temporanei.
È successo ad Art Basel, che resta la più importante del mondo, così come a Frieze, dove ci si diverte di più grazie al contorno di Londra ma dove gira meno denaro; è successo a tutte le nuove forme di mercato nate negli anni ricchi e che tentano di sopravvivere in tempi di vacche magre. Lo spettacolo e la diversificazione della proposta, del resto, si stanno rivelando maniere per tenere in vita appuntamenti commerciali in un momento in cui, nonostante nel collezionismo d'arte la flessione sia contenuta, di commercio si sentirebbe meno necessità.
Tutto questo vale anche per Artissima, la fiera torinese che trae linfa dalla vitalità culturale del capoluogo e che in Italia rappresenta l'altro polo di una dualità difficile da scalfire: da una parte Artefiera di Bologna, un classico con dentro molta arte moderna, dall'altra appunto la fiera di Torino, nata 17 anni or sono con una vena più internazionale e aperta solo a gallerie selezionate che si occupano di arte sperimentale. Milano, Verona, Roma e altre città hanno cercato di scalfire questo duopolio, ma non ci sono riuscite.
Il programma della prossima edizione di Artissima è ambizioso e à la carte, fatto per lasciare a tutti i visitatori una scelta tra manifestazioni, convegni, esposizioni. Il nuovo regista di Artissima ora è Francesco Manacorda. Trentasei anni, volato da Napoli a Londra per un master al Royal College, collaboratore di varie riviste internazionali, è stato prelevato dalla sua posizione di curatore al Barbican Art Center dopo avere lavorato a Torino come curatore alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e per la Regione Piemonte, proprio come membro del comitato per l'acquisizione di opere da Artissima.
Di solito si ha qualche timore di fronte a ogni prima volta. «Potrei aver paura che non venga abbastanza pubblico per un programma molto ricco» ci spiega. «Quest'anno abbiamo organizzato una serie di eventi, mostre e spettacoli all'interno di una struttura architettonica sperimentale costruita con materiali dalla raccolta differenziata dei rifiuti, le ecoballe che vediamo sui giornali in questi giorni per altri motivi». Ricordiamo che Artissima apre per la prima volta al design con la mostra «Visualising Transformation» e che l'edizione pare connotata da incroci disciplinari molto intensi. Continua infatti Manacorda: «Gli eventi paralleli sono tutti incentrati sulla contaminazione delle pratiche artistiche. L'intero programma si chiama Poesia in forma di rosa in omaggio a Pasolini e alla sua capacità di abitare con estrema professionalità cinema, poesia, saggistica e letteratura allo stesso tempo. Il tutto avverrà all'interno di un grande progetto architettonico di un collettivo tedesco, Raumlabor (la Casa delle contaminazioni) disegnato come prototipo per un museo del futuro. Tale struttura ospita programmi di danza, letteratura, cinema grafica, urbanistica e formazione permanente. "Visualising Transformation" è l'unico capitolo di questo progetto all'esterno della fiera. La mostra sarà alla Camera di Commercio di Torino e si focalizza su giovani designer che lavorano al confine tra arte e design, tramite la trasformazione di forme e materiali che mettano in questione concettualmente l'opera».
Cambia anche la sede principale: la fiera è infatti organizzata dentro alla struttura Oval, un padiglione più grande, con luce naturale e senza colonne, un unico spazio uniforme con pavimento in cemento. «I vantaggi diretti» sostiene Mancorda «sono stati la possibilità di allargare la fiera con la sezione "Back to the Future", e il ritorno di tutti i progetti curatoriali all'interno della fiera concentrati in un unico spazio».
Resta il problema del posizionamento di Artissima. Nata come occasione alternativa, potrebbe essere arrivato il momento in cui si ammanta di una maggiore ufficialità: lo spostamento verso l'ambito del canonico è lo scotto che si paga alla tenuta nel tempo. Nella storia delle fiere d'arte, infatti, si nota sempre un'oscillazione costante tra fiere di rottura e fiere di conservazione. Il neodirettore sostiene di volere continuare a dare a Torino la linea della rottura: «La nostra sezione di moderno, per esempio, non propone artisti consolidati ma perle da riscoprire. In tal senso vorrei che Artissima fosse percepita come una fiera in cui gli artisti, giovani o meno giovani, passano qualche anno prima di Art Basel o Frieze». Conoscendo il destino del precessore Andrea Bellini, oggi condirettore di Rivoli, (ma lo stesso Francesco Bonami non fa mistero di avere incominciato a lavorare vendendo pubblicità per Flash Art, quindi in stretto contatto con le gallerie), ci si chiede se anche Manacorda non viva quest'occasione come un master in cui si studia da direttore di museo o di biennale.
In effetti mostra idee chiare su cosa causi questa permeabilità dei ruoli: «Credo che sia dovuta a una similarità sempre più avanzata tra i modi di lavorare dei due settori. Faccio qualche esempio: la mostra di Louise Bourgeois da Hauser&Wirth a Londra il mese scorso poteva benissimo essere stata alla Tate, lo stesso si può dire di molte attività culturali svolte in gallerie private; mentre sempre più spesso grandi biennali devono chiedere alle gallerie di produrre le opere per mancanza di fondi. Dall'altra i musei, ora più che mai con i tagli economici dovuti alla crisi finanziaria, devono essere diretti con competenze manageriali e non strettamente storico-artistiche. Io credo che la divisione manichea tra commerciale e museale come diavolo e acqua santa sia del tutto obsoleta. Ciò nonostante è fondamentale non trasformare i musei in supermercati, succursali di gallerie o in puro spettacolo con mostre blockbuster. Il sistema dell'arte contemporanea intero è totalmente invischiato nella sua parte economica e la purezza legata al distacco totale dalla parte di mercato forse è un'area privilegiata che solo gli artisti si possono ancora deliberatamente ritagliare». Per ora, il primo risultato a cui aspira è «riuscire a fare di Artissima un osservatorio culturale sperimentale senza andare a discapito dei galleristi». Una sua peculiarità, del resto, è di essere gestita dalla Fondazione Torino Musei, che ha finalità soprattutto culturali, e non da un ente che mira al commercio come primo obiettivo.
Nel notorio film Vacanze intelligenti di Bolognini, ciò che colpisce oggi non è tanto Alberto Sordi spaesato tra opere d'arte contemporanee che crede pecore e che in effetti lo sono, benché dipinte di blu; ma che lui e la moglie, fieri di essere «fruttaroli», siano stati spediti alla mostra dai figli: tre adolescenti inquieti costantemente impegnati in discussioni su Wittgenstein e la Scuola di Francoforte. Erano gli anni Settanta, altri tempi, altre letture, altri ideali. Pensare che si ritorni a considerare rilevante la cultura proprio attraverso un'occasione di scambio mercantile è di conforto, anche se oggi questo suona tradizionalista anziché rivoluzionario. Se una fiera ha bisogno di rivestirsi così per essere rispettabile, ben vengano i suoi nuovi abiti.