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Salvatores duetta con De Cataldo: «Non temo Berlusconi in sè ma Berlusconi in me»

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Questo articolo è stato pubblicato il 05 novembre 2010 alle ore 13:21.

Duetto. È una delle tante belle intuizioni della sezione «L'altrocinema/Extra» del Festival di Roma, mettere insieme e a confronto personaggi diversi, ma affini. Per mestiere, idee di cinema (e non solo) o per percorso comune e parallelo. E Mario Sesti, ideandole e conducendole, sa intuire e mostrare tutto questo. Ecco perché la coppia Gabriele Salvatores- Giancarlo De Cataldo, apparentemente asimmetrica, viene unita da una riflessione sulla giustizia al cinema, e quindi anche del suo ruolo in diversi immaginari e culture. E ne esce qualcosa di davvero stimolante.

Quattro tornate di clip scelte magistralmente dai grandi classici del genere giudiziario intervallano il confronto che vede spesso i due interfacciarsi l'uno sul terreno dell'altro. Il primo, regista e il secondo, scrittore e sceneggiatore, ma anche magistrato, potrebbero e forse dovrebbero lavorare insieme. Si capiscono e si integrano e riescono a portare avanti una discussione che sa volare alto, citando Silvio Berlusconi solo quando Salvatores, ricordando Gaber, dice che non teme «Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me».

È De Cataldo a sottolineare subito come l'aula di un tribunale e la disposizione anche fisica dei partecipanti a un processo richiamino una scena, così come i ruoli affidati alle parti sembrano frutto di una sceneggiatura. «È dove si tende sempre a prendere la parte della difesa, tutti noi, a partire da Kafka, non possiamo che identificarci in qualcuno che viene perseguitato, schiacciato dall'autorità e soffocato dal sistema. Una sensazione che tutti noi abbiamo vissuto almeno una volta. E così sono davvero pochi i film che si mettono dalla parte del giudice. È naturale ma un po' mi dispiace».

Salvatores, guardando vari esempi di giustizia al cinema, nota come «il taglio americano è sempre drammatico, lo capisci dall'importanza delle inquadrature e dai colpi di scena, mentre quello italiano spesso volge alla commedia e non a caso punta molto di più sugli attori». E rivela, il cineasta, che doveva diventare avvocato. «Lo era mio padre e la targhetta col mio nome, probabilmente, era già pronta. Poi il cinema, gli anni '70 e la musica rock mi hanno salvato, spingendomi verso il teatro. Ma anche per quello devo ringraziare mio padre, che era un magnifico raccontatore di barzellette. D'altronde non faceva per me l'avvocatura: gli unici legali che mi affascinavano in quel periodo erano il Jack Nicholson di Easy Rider o lo Sean Penn di Carlito's way!».

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Tags Correlati: Cinema | Gabriele Salvatores | Giancarlo De Cataldo | Jack Nicholson | Mario Sesti | Sean Penn | Silvio Berlusconi | Ugo Pirro

 

De Cataldo rivendica il suo doppio ruolo, «anche se molti, soprattutto tra i miei colleghi, contestano le mie scelte e quella che giudicano una sovraesposizione: ma una società libera deve permettere anche ad alcuni soggetti di seguire le proprie inclinazioni, anche se inconsuete».

Entrambi guardano con gusto gli spezzoni di film e De Cataldo rileva «come una confessione come quella di Jack Nicholson in «Codice d'onore», tra gli imputati in guanti gialli, io non l'ho mai vista. Come diceva Rocco, quello del codice, la giustizia cerca una verità umanamente accettabile. Al cinema invece equivale, molto spesso, al concetto della verità». Salvatores nota poi «che la televisione sembra più avanti nel tratteggiare in maniera più complessa, anche per gli schemi narrativi meno costrittivi, l'ambiguità della giustizia e il modo di rappresentarla» e ribadisce De Cataldo che «il mio maestro Ugo Pirro, grande sceneggiatore, mi spingeva a guardare proprio Avvocati a Los Angeles, uno dei serial pionieri del genere in tv, per capire i meccanismi di sceneggiatura».

Pochi interessanti spunti, per far capire il livello di 90 minuti circa, quasi una partita di calcio, di chiacchierata intensa e arguta. Che, come tutte le altre della collana targata Extra, meriterebbero, forse, di essere riunite in un dvd. Perché in un panorama di interviste (f)rigide e di domande preconfezionate, questi duetti senza rete, che sconfinano oltre il cinema, sono un patrimonio culturale prezioso. Da conservare e diffondere.

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