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Cultura-Domenica Libri

«Jazz foto di gruppo» di Arrigoni, quando la storia della musica diventa un viaggio tra amici

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Questo articolo è stato pubblicato il 08 novembre 2010 alle ore 21:06.

Fra i libri più recenti dedicati alla musica afro-americana - che sono numerosi, perfino troppi, a differenza di quanto accadeva in un passato non tanto lontano - spicca nettamente «Jazz foto di gruppo» di Arrigo Arrigoni (Il Saggiatore, Milano, pagg.528, euro 22). E' d'obbligo qualche osservazione preliminare.

C'è un sottotitolo: «Mito, storia, spettacolo nella società americana» che allarga l'orizzonte tematico e lo rende più libero. Sulla copertina bianca campeggia una foto in bianco e nero affollata di personaggi, famosa nell'ambiente del jazz: è uno scoop del fotografo Art Kane che la chiamò «A great day in Harlem». Kane, saputo che in un certo albergo passavano le notti molti musicisti di jazz tutt'altro che facoltosi, riuscì a convocarli sulla scala esterna del portone e sul marciapiede.

Arrigoni ha scelto questa immagine - una sorta di orchestra senza strumenti - come emblema del suo libro. «In una foto - scrive - c'è un inizio e non c'è una fine. Quando si guarda una foto si può partire da dove si vuole. Si può saltare da sinistra a destra, da un viso all'altro, dal primo piano allo sfondo. Così è questo libro. È un viaggio senza tragitti predefiniti, all'avventura, un viaggio di un gruppo di amici spensierati che la scelta di dove svoltare la fanno con i dadi».

Le prime parole del testo, inequivocabili, sono «questo libro non è una storia del jazz». Ed è ovvio che chi decide di segnalare il volume (diverso anche per certi temi sorprendenti, ma comunque informato, colto, bellissimo: va detto subito) deve adottare lo stesso non-criterio. Malgrado l'apparenza leggera, «Jazz foto di gruppo» è ponderoso per il numero delle pagine e per il rigaggio, i caratteri fitti e piccoli e le note copiose. Per chiarirci le idee, va detto che l'autore, uno dei migliori esperti italiani (e non solo) della materia, è sempre stato un outsider.

Approdò nel 1961 alla rivista mensile Musica Jazz, appena ventenne, e si guadagnò subito la qualifica di redattore con un magnifico saggio suOrnette Coleman, il cui genio era decollato due anni prima, seguito poco dopo da un altro su Charles Mingus. In disaccordo con la linea editoriale, Arrigoni passò alla rivista «Jazzland» e poi continuò a scrivere per conto proprio con intermittenza, ma sempre con efficacia e con grande originalità. Qui, nella vasta materia, è possibile focalizzare quasi a caso qualche sequenza particolarmente significativa, lasciando poi alla curiosità del lettore «la scelta dei vicoli nei quali svoltare», e di leggere il libro dalla prima all'ultima pagina secondo l'uso comune, o anche a salti, per anticipi e ritorni, perché qui si può, o forse addirittura si deve.

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Tags Correlati: Albert Ayler | Arrigo Arrigoni | Art Kane | Charles Mingus | Charlie Christian | Django Reinhardt | Gruppo Editoriale Il Saggiatore | Louis Hardin | Musica

 

Arrigoni circoscrive l'àmbito del jazz (il vero jazz, si sarebbe tentati di dire con un termine obsoleto) dal 1910 al 1970, facendolo terminare con il jazz informale - «free jazz for ever», esclama - e pone in evidenza un fatto curioso, per cui ogni mutazione significativa del jazz coincide col cambio di un decennio. Apprezza lo straordinario chitarrista Django Reinhardt che per molti è una sorta di miracoloso solista europeo apparso improvvisamente nel jazz internazionale prima dell'americano Charlie Christian, ma che invece per lui segna la nascita del «jazz manouche».

Dedica pagine intense al compositore, percussionista e poeta cieco Louis Hardin (1916-1999) detto Moondog, cane che abbaia alla luna, del quale ha scritto quasi soltanto lui, iniziando qualche anno fa con un articolo. Si mediti infine (infine si fa per dire) su quanto Arrigoni afferma a proposito del sassofonista Albert Ayler, ripescato cadavere dall'East River a 35 anni il 25 novembre 1970.

Si noti che l'autore scriveva nel 2009, un anno prima del quarantennale della morte di Ayler, celebrato nello scorso agosto al Festival di Sant'Anna Arresi, dove (Arrigoni non c'era) furono dette le stesse cose, ma non con la stessa sintetica chiarezza: «La sua musica era primordiale, grezza, ripetitiva, insistente, soverchiante, ma nel suo immaginario era solo nostalgica. Era violenta e abrasiva mentre l'avrebbe voluta melodica e popolare, dolce e semplice per poter riaccompagnare ognuno di noi alla chiesa dove aveva cantato da bambino. Il desiderio insoddisfatto, l'impossibilità di tornare là dove tutto aveva avuto inizio».

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