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Questo articolo è stato pubblicato il 14 novembre 2010 alle ore 06:43.
Ferdinando Magellano era convinto che un collegamento liquido tra i due oceani doveva esserci. Fu tragica la sua spedizione con cinque caravelle partite dal porto di Siviglia nel 1519, ma lo scopo di trovare quel passaggio fu raggiunto. Imboccato, dopo molte peripezie, quello che si sarebbe chiamato Stretto di Magellano e percorsolo per intero fino a sfociare nell'«altro mare», lo stupirono i fuochi che la notte costellavano la costa a mancina. Terra del Fuoco fu dunque battezzato quell'ultimo lembo di America del Sud, che dopo l'inabissamento della Cordigliera Patagonica, ormai privo di spina dorsale, svirgola verso est, via via assottigliandosi e sbriciolandosi fino a squagliarsi a Capo Horn.
Una terra, quella, intrico di isole, fiordi e canali, rimasta inesplorata per altri secoli e in parte inesplorata ancora oggi. Herman Melville, che pure aveva molto viaggiato, usava l'aggettivo «patagonico» come sinonimo di «estrema periferia del mondo». Ebbene, al di là della Patagonia inizia un «mondo alla fine del mondo».
Negli anni Trenta dell'800 il giovane Charles Darwin, nel suo viaggio-studio ospite a bordo della Beagle (che dà il nome a un canale più angusto e ancora più a sud di quello scoperto più di tre secoli prima dal navigatore portoghese) ricevette notevole impulso all'elaborazione della sua teoria sull'evoluzione della specie osservando i «tratti scimmieschi» dei nativi Yaghan, ormai scomparsi non perché "evolutisi" ma perché sterminati dai virus introdotti dai bianchi. E guardandosi attorno annotò (Viaggio di un naturalista intorno al mondo, Feltrinelli): «Molti ghiacciai del più bel blu berillo creavano un contrasto con la neve».
Ma chi ha più descritto quei luoghi è Francisco Coloane, organico a quei paesaggi di struggente alterità in cui l'anima umana è nuda, cresciuto sentendo l'acqua gorgogliare sotto il cuscino in una casa a palafitta sull'Isola Grande di Chiloé, figlio di un capitano di navi baleniere e a sua volta navigante. Un gigante alto quasi due metri che «ricordava più un pirata che uno scrittore» e che «camminava con quell'andatura barcollante tipica dei marinai che hanno appena messo piede a terra». Così lo descrive Luis Sepúlveda nell'introduzione alla sua raccolta di racconti intitolata Terra del Fuoco, rieditata (da Guanda) in occasione del recente centenario della nascita di Coloane. Storie di uomini alla deriva antartica nel sud più profondo, fuggiaschi, cercatori d'oro, cacciatori di foche e balene, marinai superstiti di naufragi, in balia del vento e delle loro intime ossessioni, passioni, illusioni. Seguendo le tracce di quell'omone che definisce «un adolescente dalla barba bianca», degno erede di Conrad, Melville e London, Sepúlveda (Patagonia Express, Guanda) incrocia strada facendo Bruce Chatwin (In Patagonia, Adelphi) e insieme evocano fantasmi che si aggirano inquieti in quel mondo alla fine del mondo che diventa "mitico" perché, pur nella sua potente fisicità, spalanca tutte le porte dell'immaginario.