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Una giornata con Saviano: le mie prigioni di velluto

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Questo articolo è stato pubblicato il 28 novembre 2010 alle ore 06:42.

Al momento di prendere accordi per il pranzo mi avevano detto di farmi trovare di fronte a un monumento in centro a una certa ora. Il tempo passa; sto per telefonare, quando una macchina esce dal traffico e sfreccia verso di me. Esce un uomo, con il rigonfiamento della pistola visibile sotto il giubbotto, mi dice «Lloyd?», poi si scusa per il ritardo e mi apre lo sportello posteriore. Con il suo collega al volante, ci rinfiliamo nel traffico e attraversiamo la città fino a un albergo.

Fuori sono parcheggiate due auto della polizia. Mi conducono dentro, giù per un corridoio fino a una stanza bianca e senza finestre con un tavolino al centro apparecchiato per due, e sopra un piccolo vaso con dentro un fiore. Una cella di lusso. Secondo gli accordi (me l'hanno ribadito cortesemente, ma con insistenza), non posso divulgare il nome dell'albergo e nemmeno quello della città.

Uno degli uomini di scorta resta con me ad aspettare: dice di essere siciliano e di essere entrato nei carabinieri «perché laggiù non ci sta niente per i giovani: certi miei amici hanno scelto il lavoro nero». Dopo alcune verifiche sui genitori e sui nonni (nella sua famiglia a quanto sembra non c'era nessuna connessione con la mafia o la criminalità), lo hanno mandato in continente; per un po' ha servito in divisa, poi si è offerto volontario per seguire un corso di formazione per gli uomini delle scorte («anche se lo sapevo che era pericoloso») ed è stato assegnato a Roberto Saviano.

Sono passati quattro anni dalla pubblicazione di Gomorra, il libro dove Saviano descrive come si vive sotto la camorra. Gomorra è un ibrido, in parte giornalismo, in parte reportage in prima persona, in parte autobiografia. Sprazzi descrittivi si alternano con amare denunce della crudeltà e del l'indifferenza. Federico Varese, professore di Criminologia all'Università di Oxford, uno tra i più illustri studiosi del crimine organizzato, dice che Saviano descrive con chiarezza non soltanto la brutalità della camorra, ma anche la sua capacità di penetrare in profondità nella società napoletana (e molto oltre). L'aspetto che rende particolarmente prezioso il libro di Saviano, dice sempre Varese, è il fatto di «mostrare l'utilità della camorra per una parte della popolazione: forniscono prestiti, consentono di investire nei loro traffici di droga e in altre attività e versano interessi agli investitori, schiacciano la concorrenza. E Saviano non ne parla come se fosse un fenomeno locale, mostra i loro legami con le reti globali, mostra l'effetto che producono su di voi e su di me».

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Tags Correlati: Carl Schmitt | Carmine Schiavone | Ernst Jünger | Falcone | Federico Varese | Giustino Fortunato | Gomorra | Matteo Garrone | Oddio | Rai Tre | Roberto Saviano | Sud | Università di Oxford

 

Gomorra è stato un successo clamoroso: soltanto in Italia, un paese dove si legge relativamente poco, ne sono stati venduti 2 milioni di copie; nel 2008 è stato tratto dal libro un film straordinario, diretto da Matteo Garrone, con attori napoletani non professionisti, in alcuni casi semplici bambini. Saviano, che ha poco più di trent'anni, è diventato una celebrità nazionale come nemico implacabile delle gang criminali, un barlume di luce in un buio sempre più fitto. Ma questa celebrità per lui ha comportato anche dover accettare di essere un bersaglio, dover convivere con le conseguenze delle sue azioni.
Il mio intervistato arriva: è magro, ha la testa rasata e un viso appuntito, dai lineamenti gradevoli ma guardingo. Ci sediamo e io gli chiedo, indicando la stanza, se è così che vive. «È così che vivo; tutto il tempo», mi risponde lui. Vive così in pratica da quando è stato pubblicato Gomorra e la Camorra ha giurato di ucciderlo. Nel 2008 un informatore di nome Carmine Schiavone, cugino di Francesco Schiavone, uno dei capi del clan camorristico dei Casalesi, rivelò i dettagli di un piano per far saltare in aria l'automobile di Saviano mentre andava da Napoli a Roma.

È una prigione di velluto, ammette lo scrittore trentunenne: Gomorra ha fatto di lui un uomo ricco, e lo stato gli garantisce protezione 24 ore su 24. Ricordo una frase di uno dei saggi contenuti nel suo ultimo libro, La bellezza e l'inferno, una raccolta di riflessioni sulla sua vita sotto scorta, che verrà pubblicato in Gran Bretagna all'inizio del prossimo anno. «Penso a tutti i compleanni passati così, da quando ho la scorta, un po' nervoso, un po' triste e soprattutto solo». Sorride tristemente. Deve spostarsi in continuazione, da un appartamento all'altro: come hanno constatato altri che si trovano nella sua posizione, quando i vicini scoprono che vive lì, si lamentano e gli chiedono di andar via. La cella bianca in cui ci servono un ottimo pasto è una ricompensa e una punizione al tempo stesso.

Ma nel mondo esterno dove non può avventurarsi senza protezione, Saviano è sempre in prima pagina: il suo libro, il suo giornalismo e ora un programma televisivo, Vieni via con me, due ore di interviste su tematiche di attualità, filmate in una località segreta supersorvegliata, dove il ruolo principale di Saviano è quello di tenere un monologo di quasi mezz'ora, guardando dritto nella telecamera, su un argomento scelto da lui. «È un discorso dai ritmi lenti», dice lui, «di certo non il genere di cose che si vedono normalmente in televisione, specialmente nella televisione italiana».

Un precedente episodio, dove ha sostenuto che i clan mafiosi del Sud Italia ormai controllano larghe fette dell'economia del Nord, ha provocato grandi polemiche. Lo show, trasmesso su Raitre, un canale della tivù pubblica tradizionalmente territorio della sinistra e dunque immune all'influenza di Silvio Berlusconi, ma con bassi indici di ascolto, ha avuto 8 milioni di spettatori nella prima puntata e 9 nella seconda. Faccio le mie congratulazioni a Saviano: lui è orgoglioso, dice che Vieni via con me è il programma più visto da quando è stata creata Raitre, nel 1979, poi, subito, chiarisce i contorni di questo successo: «Ma ha suscitato un tale odio! Da parte della classe politica. È un odio che si può vedere dappertutto in Italia, verso chi alza la voce e cerca di contrastare il clima dominante. Odio autentico».

Saviano definisce questa reazione «la macchina del fango», un'espressione che ha preso piede in Italia. Mentre arriva il primo (il menù lo hanno scelto per noi, un fantastico risotto con i gamberi servito con un delizioso vino bianco leggero), gli chiedo che cosa intende con «macchina del fango». «È la reazione istintiva non solo dei politici, ma della società. Guardi come furono trattati Falcone e Borsellino: accusati, diffamati, perché con il loro operato mettevano a nudo l'indifferenza della classe politica e della società».

Saviano nutre una grande rabbia, seconda solo al suo odio verso la criminalità organizzata, per un tema di cui parlò Borsellino al funerale di Falcone (due mesi prima del suo): «Puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della complicità». Saviano dice che è la tattica dei potenti «conferire legittimità a chi si conforma, incoraggiare o perfino mettere in moto la "macchina del fango" nei confronti di chi minaccia il loro potere».
Il cameriere, deferente e un po' nervoso, torna presto con il secondo: spigola avvolta in un ripieno di verdure a dadini, cotta al vapore dentro barattolini cilindrici e servita in due piccole colonne, con contorno di patatine. Saviano, che durante la prima parte della nostra intervista era stato molto vivace, sempre con il sorriso sulle labbra e la risata pronta, ora resta più spesso in silenzio, dà risposte più brevi e tiene lo sguardo basso. Gli chiedo di parlarmi della sua famiglia e dei suoi amici, ma questo argomento non lo vuole trattare. Soffre di depressione, e il suo stile di vita non fa che aggravarla. La sua fama e il coraggio che ha dimostrato per conseguirla gli hanno aperto delle porte e lo hanno introdotto in un'élite culturale a livello italiano (e mondiale): ma lo hanno anche privato della possibilità di fare le cose che fanno tutti quelli della sua età. Parla, come ha fatto altre volte in passato, di lasciare l'Italia per un paese più sicuro, dove la «macchina del fango» non possa raggiungerlo. Gli chiedo se intende entrare in politica, come qualcuno ipotizza. «No, assolutamente no. Non perché pensi che tutta la politica e i politici siano venali: ci sono indubbiamente i corrotti, ma ne conosco tanti che fanno del loro meglio per rendere il paese migliore. Ma scrivere è quello che sono».

Riconosce però di essere diventato un simbolo per la sinistra italiana: il suo programma va in onda sulla rete di sinistra, gran parte dei suoi articoli vengono pubblicati da «La Repubblica». Ma lui non è ideologicamente il classico uomo di sinistra. Fra le influenze intellettuali che cita durante la conversazione (ha studiato filosofia all'università, legge moltissimo e rispetto alla maggioranza della popolazione non ha molti altri passatempi oltre alla lettura) ci sono l'anarchico Enrico Malatesta, scrittori meridionali che considera ingiustamente trascurati, come gli antifascisti Gaetano Salvemini e Giustino Fortunato, autori tedeschi di destra come Carl Schmitt ed Ernst Jünger e perfino autori filofascisti come Ezra Pound e l'italiano Julius Evola. Si definisce un liberale, anche se dice che «in Italia la corrente di pensiero liberale è debole ed esigua; è stata schiacciata dalle due grandi forze, democristiana e comunista».

Fin da piccolo, racconta, sapeva di dover scrivere, di dover raccontare la criminalità che lo circondava. Saviano è cresciuto a Napoli, in una famiglia borghese. Ma tutto intorno a lui c'era la camorra, una fratellanza criminale estesissima, fondata sui clan e vecchia di almeno due secoli. La camorra controlla l'industria casearia e l'industria ittica, il commercio di caffé e oltre 2.500 fornai in città. Controlla anche lo smaltimento dei rifiuti, e le battaglie per il controllo di questa redditizia attività hanno provocato sporadicamente, negli ultimi tre anni, l'accumulo di sacchi di spazzatura nelle strade del capoluogo campano.

Quando era adolescente, Saviano vide suo padre pestato per aver soccorso una vittima della camorra: la «regola» era che quelli bisognava lasciarli morire. Suo padre però mostrava rispetto per gli uomini di potere, e consigliava a suo figlio di essere forte, come i boss della camorra. Forse ha avuto più influenza su di lui un prete anticamorra, don Peppino, a cui Saviano dedica un capitolo in Gomorra e che fu ucciso da coloro che aveva denunciato. Saviano ricorda che il prete gli diceva che chi si opponeva ai clan doveva essere «lì per accusare e testimoniare la parola con la sua unica difesa: dire le cose pubblicamente».

Saviano ha seguito quel consiglio ed è stato questo a dargli la notorietà straordinaria di cui gode. Lui c'è, con forza, in tutto quello che scrive; e c'è ora, con ancora più forza, nel suo programma televisivo. «Credo che scrivere come scrivo io rimane più impresso perché è una narrazione, ed è questo che coinvolge la gente. Non sono solo i fatti a trasmettere la storia. Dev'essere anche letteratura, non solo fatti».

I suoi libri lo hanno catapultato fra l'aristocrazia della letteratura: due anni fa è stato invitato a una cerimonia presso il Comitato per il Nobel, a Stoccolma, e ha incontrato lo scrittore Salman Rushdie, oggetto di una fatwa lanciata dal regime iraniano per il suo romanzo «blasfemo» I versetti satanici, del 1988, e che da anni è protetto dalla polizia. Saviano e Rushdie hanno tenuto discorsi su «La libertà di parola e la violenza criminale», e Rushdie, più anziano, ha detto a Saviano che prima o poi dovrà lasciare la sua prigione di velluto nonostante i rischi, altrimenti «i tuoi nemici avranno raggiunto il loro scopo. Il loro scopo è vederti morto. E tu sarai morto: non fisicamente, ma mentalmente e moralmente. Non puoi fare quello che vuoi; non puoi vivere la vita pienamente. Ti hanno ucciso». Rievocando quell'incontro, Saviano dice: «Per me fu una rivelazione: Rushdie aveva ragione, e ho verificato che aveva ragione».

Come Rushdie, che ora conduce una vita relativamente aperta, e come la scrittrice olandese di origini somale Ayaan Hirsi Ali, che vive ancora sotto protezione dopo le «blasfemie» antislamiche contenute nel suo libro di memorie del 2006, Infedele, e le sue forti campagne contro l'islamismo, Saviano continua a spargere sale sulle ferite dei suoi nemici, con forza e insistenza. E come Rushdie e la Ali, soffre non solo per la malizia di chi manovra o si adegua alla macchina del fango, ma anche per la pusillanimità di chi è dalla sua parte. Parla di rifugi che ha dovuto abbandonare per le proteste dei vicini spaventati (ma anche del coraggio di amici anonimi, e perfino di estranei, che gli hanno offerto la loro ospitalità); e dice di avere nemici anche a sinistra oltre che a destra, che considera le sue opere e le sue campagne antimafia «eccessive», addirittura antipatriottiche.

Il giorno in cui ci incontriamo, quelle pagine dei giornali italiani che non si occupano di Saviano e dei suoi programmi televisivi parlano della crisi del governo Berlusconi, provocata, come già in passato, da scandali legati a giovani donne a cui il presidente del Consiglio avrebbe offerto ospitalità e «protezione». Ma la cosa più grave per lui è che questi scandali sono accompagnati da un calo della fiducia dei cittadini, che sembrano non credere più nella sua capacità di risollevare l'economia. «Berlusconi è finito», dice Saviano semplicemente.

Nella prima puntata di Vieni via con me, il famoso comico Roberto Benigni ha raccontato una barzelletta contro il presidente del Consiglio: sbeffeggiando una dichiarazione di Berlusconi, che aveva detto che le voci sulla sua vita privata erano il segnale che la mafia stava complottando contro di lui, Benigni ha chiesto se la mafia ora si era messa a usare belle ragazze invece di bombe e pistole, e immaginava il premier che tornava a casa una sera e trovava tre ragazze sul letto e si metteva a strillare: «Oddio, la mafia!». Per Saviano il programma, che mescola comicità e solennità con audience da record, è un segnale a lungo atteso di una ribellione della società civile. Ma lui continua a tenere lo sguardo basso; ora deve andare, ci sono da fare le prove per la prossima puntata. Eroe del suo tempo e vittima del suo paese al tempo stesso, Saviano sorride, stringe la mano e lascia la nostra cella di lusso, con gli uomini della scorta incollati dietro.
© «Financial Times»
(Traduzione di Fabio Galimberti)


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