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Questo articolo è stato pubblicato il 06 dicembre 2010 alle ore 18:34.
«A teatro siamo tutti figli unici», ammette divertito Fausto Paravidino,giovane drammaturgo e attore genovese noto anche come volto del grande e piccolo schermo. Perché «è un fatto e non un'opinione che in Italia non esiste un teatro di drammaturgia paragonabile a quello tedesco o inglese». Non c'è una scuola che si è imposta nel tempo, un codice comune, «nemmeno da violare».
Non che questo sia necessariamente un male: non lo è per Luca Ronconi, grande maestro che del teatro di regia (al contrario così tipicamente italiano) è un vero pilastro. «L'autore che scrive il testo è solo una parte della rappresentazione – dice il regista, oggi 77enne –. Non ha senso paragonarsi ad altre tradizioni, bisogna chiedersi piuttosto quale sia la vocazione del teatro italiano. Semplificando, direi che il nostro teatro fatica a essere considerato parte della letteratura come accade in Francia o Germania. Da noi il teatro è cosa di chi fa teatro». Da De Filippo a Fo, fino allo stesso Paravidino, «spesso gli autori in Italia, ieri come oggi, hanno iniziato come attori o registi».
La contiguità tra scrittura e rappresentazione sembra un tratto costante della nostra tradizione. Anche chi al teatro arriva attraverso l'amore per il verbo ammette (con poche eccezioni) l'importanza di confrontarsi con la scena e magari rivedere i testi che, come un abito sartoriale, devono cucirsi addosso alle esigenze di registi e interpreti.
Se la mancanza di una lingua nazionale comune e parlata (non letteraria) è da sempre indicata come l'ostacolo maggiore alla creazione di un teatro di drammaturgia in Italia, i lavori e le idee più interessanti sembrano oggi arrivare proprio dalla ricerca di un linguaggio in grado di rappresentare la contemporaneità e le sue contraddizioni, di volta in volta espresse in modo mimetico, oppure attraverso il filtro straniante della storia o di rappresentazioni metaforiche e visionarie.
«Mi sembra che si stia imponendo una generazione di scrittori in grado di superare i vecchi codici, come il copione – nota Simone Bruscia, 33enne direttore del Premio Riccione, assegnato ai migliori autori teatrali italiani (con una sezione, il Tondelli, riservata agli under 30) –. Molti elaborano una parola che cerca il cortocircuito tra scrittura ed esecuzione e pensa la scena in modo nuovo». Questa ricerca prende direzioni anche assai diverse. Alcuni – nel solco di un'antica tradizione – scavano nel dialetto, considerato lo strumento migliore per dare espressione alle infinite pieghe dell'animo umano: tra questi i siciliani Scimone&Sframeli o i campani Enzo Moscato e il giovane Mimmo Borrelli. Altri, sulla scia di modelli come la Societas Raffaello Sanzio, scardinano e fondono il rapporto tra testo e fisicità: compagnie come Motus, Pathosformel, Teatro Sotterraneo, Anagoor o Codice Ivan si servono di una drammaturgia spesso priva di parole, fatta piuttosto di fisicità, corporale o visiva. Altri ancora (guardando all'esempio dei performer-monolganti come Marco Paolini, Ascanio Celestini o Davide Enìa) si "servono" del linguaggio teatrale per approfondire vicende storiche (Daniele Timpano) o fatti di cronaca e inchieste (Giulio Cavalli).