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Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2010 alle ore 08:22.
Di Manifesta 8, la Biennale itinerante che sta svolgendosi a Murcia e Cartagena, non si è parlato molto. Eppure è un gigantesco itinerario di sperimentazioni artistiche, con una quindicina di sedi in due città e oltre cento tra curatori e artisti. Ci sono luoghi di grande suggestione, come l'ufficio postale abbandonato di Murcia, la prigione in cui venivano internati i dissidenti durante il franchismo, il settecentesco Padiglione per le Autopsie. Il tema scelto è sempre quello che ha fondato la manifestazione, ma rimane di estrema attualità: il confine, la commistione linguistica, la relazione difficile tra tradizioni vicine nello spazio ma separate da monti, mari o vicende storiche. È accaduto due anni fa in Alto Adige e in precedenza nei paesi baschi, in Germania, in Slovenia, in Lussemburgo, in Olanda.
Qui a Murcia, però, si è fatto un passo ulteriore: il confine di cui si cercano le tracce non è più quello intraeuropeo ma quello tra la cristianità e l'Islam, ricacciato nel vicino Marocco e in tutta l'Africa settentrionale ai tempi della regina Isabella. È presente anche la cultura ebraica, così importante per il medioevo spagnolo e anch'essa mandata via con infamia dopo che, invece, le tre religioni monoteiste avevano generato insieme grandi conquiste culturali: scuole di traduzioni, il recupero di Aristotele, la diffusione del sapere matematico e dell'ottica e così via.
Di questo oggi rimane un senso di apertura alla formazione: Murcia ha ben tre università e uno degli eventi centrali di Manifesta è stato, la settimana scorsa, un convegno sullo sviluppo dei dottorati nei corsi d'arte visiva.
Tutto questo ha dato luogo a una mostra molto sofisticata già a partire dal tipo di curatela, che non è stata affidata a un singolo, a un guru sul modello Harald Szeemann – modello che Manifesta ha sempre evitato – ma a tre collettivi: gli egiziani Alexandria Contemporary Arts Forum, (Bassam El Baroni e Jeremy Beaudry, versati nella new media art); i Chamber of Public Secrets, (Khaled Ramadan, libanese, e Alfredo Cramerotti, italiano, amanti del documentario e dei video) e i tranzit.org (Vít Havránek, Zbynek Baladrán, Dóra Hegyi, Boris Ondreicka e Georg Schöllhammer, da Austria, Repubblica Ceca, Ungheria, Svezia e Slovacchia). Ciascuna compagine ha lavorato indipendentemente dal l'altra, portando anche all'interno della mostra i temi della diversità di approccio e del confronto. Ciò che ne esce è ovviamente una mostra che non assomiglia a un film organico, ma a un insieme di frammenti di cui è difficile ricostruire l'insieme. Il visitatore non è di fronte a uno spettacolo ma a un puzzle che gli chiede una visione molto attenta e che, sovente, induce invece al contrario: il passaggio distratto da un'opera all'altra, in cerca di qualche poesia.