Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2010 alle ore 08:22.
L'affresco con Giove e Ganimede della Galleria Nazionale di Roma fu oggetto di uno dei più clamorosi abbagli critici della storia del l'arte moderna. Di fronte a questo abile esercizio d'imitazione – tanto per usare un eufemismo –, opera dell'ingegnoso quanto stucchevole pittore Anton Raphael Mengs, che lo eseguì nel 1760, andò a infrangersi il giudizio encomiastico di Joachim Winckelmann, che lo prese per un originale romano di eccelsa qualità. Pochi anni più tardi Goethe, nel suo Viaggio in Italia, lo commentò con parole gravide di ammirazione: «Quadro meravigliosamente problematico e della bellezza oltremodo sublime del Ganimede». In realtà questo affresco aveva tutte le caratteristiche di un falso, spacciato per originale da un lestofante d'alto bordo, solito girellare tra gli scavi di Ercolano e Pompei: il cavalier de Marsilly, il quale aveva diffuso la voce che l'opera era stata trovata in una grotta segreta nei pressi di Bolsena.
Il celebre affresco di Mengs oggi è esposto nella bella mostra organizzata a Palazzo Sciarra dalla Fondazione Roma, e curata da Valter Curzi e Carolina Brook, dove sono stati raccolti centoquaranta fra dipinti, sculture, arredi, disegni e incisioni che documentano nel migliore dei modi possibili quella che potremmo definire l'esaltante epopea della ripresa dell'antico a Roma nel XVIII secolo. Il ritorno all'antico nelle arti prodotte a Roma è una costante che ha sfidato il tempo, ma nel Settecento, sulla spinta degli scavi condotti a Pompei e a Ercolano, oltre ad alcuni insigni ritrovamenti archeologici emersi nella villa Adriana a Tivoli, il tutto illuminato dagli studi e dalle teorie di Winckelmann, si assiste a un fenomeno di proporzioni enormi, attestato dalla presenza in città di un numero ingente di artisti stranieri, dal fervore del collezionismo – a cominciare da quello dell'Albani –, dal l'apertura di Musei, vedi il Pio Clementino voluto dal pontefice Pio VI, da una ripresa vivacissima del mercato delle antichità, con la conseguenza di una nuova ondata di restauri (e anche di falsi), dalla rivitalizzazione delle accademie.
Nella prospettiva di dar corpo e visibilità a una situazione così febbrile, nella mostra sono state convocate opere e manufatti settecenteschi di prim'ordine, messi accanto, e in taluni casi a confronto, con altrettante testimonianze antiche. L'effetto sortito è di indubbia continuità e unità culturale, sullo sfondo di una Roma che oggi possiamo ricostruire soltanto in base alle belle vedute di Gaspar van Wittel, o di Clérisseau, o ai grandi Capricci di Panini, una Roma superba e solare, come doveva presentarsi allo sguardo di Goethe che esclamò: «Ciò che a Roma rimane in piedi è sempre stupendo, così come ogni frammento è venerabile».