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Questo articolo è stato pubblicato il 13 dicembre 2010 alle ore 15:47.
Fatta l'Italia, sono stati fatti, in qualche modo anche gli italiani. Una ciambella non sempre fornita di buco, secondo gli italiani stessi, quando si guardano allo specchio. Uno degli sport nazionali, d'altronde, è l'autodenigrazione, condita di geremiadi inclini allo stigma sugli eterni vizi degli abitanti dello Stivale. Questo atteggiamento è bilanciato da una complementare (e spesso ambiguamente sovrapposta) indulgenza bonariamente sorridente – quando non soddisfatta tout court – nei confronti dell'arcitalianità.
Questo bifronte autoritratto disegnato in un secolo e mezzo di unità del paese, in cui una delle due facce spesso trascolora impercettibilmente fino a trasformarsi nell'altra, è un cortocircuito non sanato e forse non sanabile nella coscienza collettiva italiana. Combustibile formidabile della chiacchiera da bar (chiacchiera da "moralisti da caffè o da farmacia", come espresso nella patina rétro che si è depositata su un intervento di Benedetto Croce, apparso nel 1912 su La Voce), la discussione sul concetto di "essere e sentirsi italiani" ha impegnato negli ultimi cento anni anche molte delle migliori penne.
Non sono fascista, non sono comunista, non sono dc
«Non sono fascista, non sono comunista, non sono democristiano: ecco che mi restano forse venti possibilità su cento di essere italiano. Non scrivo e non parlo il mio dialetto, non adoro la città dove sono nato, preferisco l'incerto al certo, sono per natura dimissionario, non sopporto il paternalismo, le dittature e gli oratori. Il gioco del calcio non mi entusiasma…», scriveva Ennio Flaiano su Il Mondo, nel 1957. «Il congedo l'ho preso negli ultimi tempi dalla stessa Italia, un Paese che non mi appartiene più e a cui sento di non più appartenere», scriveva Indro Montanelli nel 1997 sul Corriere della Sera. «Fesso, in Italia, è una parola chiave. Non c'è aggettivo che lasci tanto trasparire controluce, nella sua ascesa tra Otto e Novecento e nel suo attuale declino, la storia di una nazione», scriveva Giuseppe Pontiggia su Il Sole 24 Ore, sempre nel 1997. Questo è un florilegio di citazioni virate all'umor nero tratte da «Scusi, lei sente italiano?», un libro a cura di Filippo Maria Battaglia e Paolo Di Paolo, edito da Laterza. Il volume è un'antologia che raccoglie quarantatré pezzi giornalistici sul tema: da Giovanni Ansaldo a Sandro Veronesi, in ordine alfabetico, e da Benedetto Croce a Ezio Mauro in ordine cronologico.