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Questo articolo è stato pubblicato il 19 dicembre 2010 alle ore 08:24.
Può accadere che sia su una tela, come per il più classico dei pittori, o invece nell'angolo del soffitto, come una macchia di muffa. Per terra, sulle scale. Che ricopra libri, scaffali, letti, scatole, stracci, mucchi di terra e forme di polistirolo. Che sia gialla, arancione, azzurra, viola, fucsia, blu. O una tinta verde che guardata da un angolo diventa rosso scuro, poi blu e a volte sembra nera, e quando cala la luce diventa più opaca, color bottiglia. Dagli anni Novanta la pittura di Katharina Grosse (1961, Freiburg) ha invaso musei, gallerie, sedi espositive e spazi pubblici di tutto il globo. Prima timidamente sul muro, in modo quasi ordinato, poi passando da colore a olio e pennello, all'acrilico dato con il compressore, con la maschera che la copre come fosse un operaio, in modo che il suo gesto possa non solo andare dalla tela al muro, ma anche oltre, superando i limiti fisici dell'edificio, perché seguirne passo passo le superfici sarebbe come essere un normale scultore. «A un certo punto mi sono accorta che non potevo guardare gli oggetti separatamente. Non riuscivo a dire questo è un tavolo, questa è una sedia, questo è un albero. Vedevo tutto connesso. E ho cominciato a dipingere fuori, incollando pezzi di carta per sbordare dalla tela, poi direttamente sul muro. In questo modo è stato molto naturale per me uscire dalla pittura canonica». In Italia abbiamo già visto il suo lavoro in via Farini a Milano, al Museion di Bolzano, e nella personale alla Galleria Civica di Modena. «Tutto inizia sempre dallo spazio, non voglio ripetermi, capita che le insoddisfazioni di un lavoro precedente trovino ragione in quello successivo, o che il progetto che sognavo si riveli inattuabile». Dopo la visita, una volta sul posto, prepara i suoi colori acrilici dentro bombolette che poi attacca al compressore per spararli nello spazio. Non si limita a colorare luoghi chiusi, a volte coinvolge anche le superfici limitrofe all'edificio, quasi che usando il colore si possa andare oltre le parti più rigide, rendendo permeabile il confine tra dentro e fuori. Sarà un enorme progetto quello al Mass Moca, la prima personale di rilievo negli Stati Uniti, un bel traguardo per una donna, tedesca, la cui pittura assomiglia neanche troppo vagamente a Pollock, ma che quando usa i cumuli di terra si avvicina ai lavori più ambientali di Allan Kaprow, o ai progetti più ambiziosi di Robert Morris e Smithson, ponendo l'accento sul coinvolgimento fisico dell'artista nel lavoro, sul processo più che sulla forma, sulla relazione imprescindibile tra l'opera, il luogo in cui è realizzata e l'esperienza dello spettatore.