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Questo articolo è stato pubblicato il 19 dicembre 2010 alle ore 08:23.
Il capitalismo è un sistema che funziona assai meglio delle strategie dei suoi detrattori: se qualcuno avesse ancora dei dubbi ricostruisca la storia del suo più noto oppositore tra gli editori, André Schiffrin cioè, che più di vent'anni fa vendette la sua Pantheon Books a Random House a un prezzo per lui premiante ma certamente eccessivo rispetto alla redditività della casa editrice, tanto che qualche tempo dopo, di fronte ai risultati deludenti della casa che aveva venduto e continuava a dirigere, fu costretto ad andarsene. I conti nell'impresa devono tornare e se non tornano c'è un responsabile.
Per Schiffrin il responsabile è un "capro espiatorio", una vittima cioè del mercato, il quale secondo lui vale quando vende al prezzo più alto e non vale più quando si guardano i risultati. Il sogno di questi editori è che lo Stato tuteli la loro indipendenza culturale coprendo il loro rischio d'impresa e, se possibile, comprando buona parte delle tirature, ovviamente per arricchire le biblioteche. Del pubblico poco si occupano, perché la gente, se non compra i loro libri è stata corrotta dal "sistema", dalla televisione, o da chissà che cosa.
Schiffrin aveva già raccontato la sua patetica vicenda in Editoria senza editori (2000) e ora ci riprova con un libello intitolato Il denaro e le parole con una postfazione di Guido Rossi. Il suo punto di vista è presto riassunto: il valore di una casa editrice non va misurato secondo i parametri economici che determinano il valore di ogni altra azienda, ma invece secondo criteri rigorosamente ideologici.
Schiffrin difende il suo progetto, «The New Press» espressamente no profit, e ingaggia una competizione con gli altri media, per contendersi i denari che lo Stato destina alla cultura, e comincia contestando i finanziamenti che la Francia elargisce in misura maggiore al cinema e allo spettacolo, puntando a tener alto il primato della letteratura e dell'editoria.
Possibile che si sia ancora costretti a seguire polemiche così inutili e inopportune, per di più sostenute da voci autorevoli, come Guido Rossi, che ripetono ossessivamente che «solo l'intervento pubblico può impedire la deriva che il mito privatissimo del profitto ha procurato ai processi culturali»?