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Conservatori gli studenti, miopi i politici

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Questo articolo è stato pubblicato il 02 gennaio 2011 alle ore 14:58.

La battuta sui "bamboccioni", mammoni italiani che rimangono fino a un'età inverosimile a casa dei genitori, senza sposarsi, senza rendersi autonomi, insomma senza diventare grandi, è stata forse la più infelice nella breve carriera politica di Tommaso Padoa-Schioppa. Pronunciata nell'autunno del 2007 davanti alle commissioni Bilancio del Senato e della Camera, la battuta dell'ex ministro dell'Economia recentemente scomparso è assurta a paradigma dell'incapacità della nostra classe dirigente di cogliere il disagio delle nuove generazioni: generazioni condannate a un destino alla Peter Pan non dall'immaturità o dal mammismo, ma – piuttosto – da qualcosa come un sistema sociale di precariato culturale ed economico.

Se perfino un civil servant dell'integrità e del valore di Padoa-Schioppa faticava a comprendere il dramma della gioventù italiana di oggi, come sorprendersi del dialogo tra sordi cui ha finito per ridursi il confronto tra il ministro Mariastella Gelmini e gli studenti universitari, durante la fase conclusiva del percorso parlamentare che ha tradotto in legge la riforma dell'Università? Più che di un confronto si è trattato, in effetti, di un durissimo scontro. Ma adesso che il casus belli è venuto meno, la riforma Gelmini essendo stata approvata in via definitiva, merita di chiedersi se le forme assunte dallo scontro stesso non riflettano – di là dalla contingenza – una caratteristica strutturale nella storia dell'Italia repubblicana.

La contestazione "a prescindere" della riforma Gelmini ha illustrato l'incapacità storica dei movimenti studenteschi e giovanili di affinare lo sguardo, riconoscendo quanto di positivo può venire al paese da esperienze riformatrici, quand'anche promosse da un governo screditato com'è ormai il governo Berlusconi. Al contempo, la protesta anti-Gelmini ha illustrato la capacità di quegli stessi movimenti di guardare alla big picture, al quadro d'insieme: cogliendo l'essenziale della logica politica che sta dietro i "dettagli" tecnici. Specularmente, il contenzioso ha dimostrato, nelle nostre classi dirigenti, una capacità e un'incapacità uguali e contrarie. La capacità di individuare problemi anche rilevanti, e di proporre soluzioni ad hoc; l'incapacità di cogliere il quadro complessivo, il macro anziché il micro.

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Il dialogo fra sordi sulla riforma Gelmini proviene da qui: da un problema – potremmo dire – di messa a fuoco. È come se, in Italia, i movimenti giovanili impugnassero una macchina fotografica con il grandangolo, le classi dirigenti una macchina con il teleobbiettivo, gli uni e le altre fallendo nel tentativo di conseguire una giusta profondità di campo.

Era successo già all'epoca del Sessantotto. Allora, le classi dirigenti del centrosinistra avevano dovuto scontrarsi duramente con i movimenti giovanili, e non erano riuscite a far passare una riforma intrinsecamente democratica del sistema di istruzione superiore: una riforma che cercava di superare l'Università "di classe" ereditata dal modello sabaudo e fascista liberalizzando gli accessi alle diverse facoltà, elevando a sistema il diritto allo studio, promuovendo corsi serali per gli studenti lavoratori. Anche allora, la protesta degli studenti aveva assunto una valenza obiettivamente conservatrice. Incapaci di cogliere le virtualità della riforma propugnata dal centrosinistra, i movimenti giovanili avevano involontariamente finito per difendere lo status quo di un'Università dei "baroni", piramidale, corrotta, inefficiente.

Eppure, già nel Sessantotto i movimenti avevano mostrato di percepire come le classi dirigenti italiane non fossero all'altezza di una sfida epocale che investiva, attraverso l'Università, l'intera questione dei rapporti fra classi, fra sessi, fra generazioni. Nel momento in cui l'istruzione superiore tendeva ormai a divenire fenomeno di massa, una riforma dell'Università richiedeva di più che piccoli o grandi aggiustamenti dell'antico modello ottocentesco e primo-novecentesco, il modello tedesco di Wilhelm von Humboldt o quello italiano di Giovanni Gentile. In mancanza di un modello davvero nuovo, la democratizzazione dell'accesso all'Università non sarebbe bastata a scongiurare il rischio (la storia lo ha poi dimostrato) di una riproduzione delle élites tradizionali.

Oggi, le cose sembrano riproporsi in termini analoghi al 1968 e dintorni. Incapaci di guardare al micro, i movimenti studenteschi e giovanili che sono scesi nelle piazze contro il ministro Gelmini non hanno saputo riconoscere i singoli aspetti positivi della riforma universitaria. Hanno così dato l'impressione di difendere, obiettivamente, un inaccettabile status quo, senza considerare i benefici che l'Università italiana potrà ricavare da un sistema rinnovato di governance degli atenei, da un potenziamento del ruolo dei dipartimenti rispetto a quello delle facoltà, da un ritorno a procedure nazionali oltreché locali di reclutamento dei docenti.

Al tempo stesso, oggi come quarant'anni fa le classi dirigenti italiane appaiono incapaci di guardare al macro. Nei mesi scorsi, il loro "tifo" per la riforma Gelmini non si è accompagnato con una riflessione adeguata intorno al disagio delle giovani generazioni: disagio per esprimere il quale la protesta contro la riforma universitaria ha rappresentato poco più che un pretesto. È il disagio di una "gioventù bruciata" (come l'ha recentemente definita Barbara Spinelli) che rigetta ben altro che la nuova governance degli atenei, la futura riorganizzazione delle facoltà o il reclutamento nazionale della docenza. Più profondamente, la gioventù scesa in piazza rigetta un "riformismo" che sembra minacciare – a colpi di indiscriminati tagli finanziari – l'ideale stesso di una pubblica istruzione, mentre eleva a sistema la cultura del precariato e accetta come ovvia la fuga dei cervelli.

Oggi, è questa la big picture: concreto è il rischio che le nuove generazioni di italiani crescano sempre più impoverite di risorse culturali e sociali da mettere a disposizione del sistema-paese. Sicché la battuta del presidente Berlusconi sugli studenti anti-Gelmini come «quelli dei centri sociali» e «quelli fuori corso» («gli studenti veri sono a casa a studiare») riesce altrettanto infelice della battuta di Padoa-Schioppa sui bamboccioni.

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