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Questo articolo è stato pubblicato il 02 gennaio 2011 alle ore 10:40.
Dunque, non posso che nascere in un ambiente intellettuale, e in intellettuale trasformarmi, a dispetto delle convenzioni vittoriane in materia di istruzione scolastica femminile. Però, da ragazzetta, frequento corsi di greco, latino, storia, tedesco al Ladies' Department of King's College London, mentre anni più tardi tengo a Cambridge due conferenze, da cui ricavo Una stanza tutta per sé. Insegnare all'università non mi diletta: il mio lavoro è scrivere. Collaboro, subito, al «Times Literary Supplement», con recensioni di norma anonime, che accordano libertà, pur non esonerandomi dalle responsabilità: chiunque discerne il mio stile. Oltre «TLS», «Cornbill», «Guardian», «National Review», «New Statesman», perfino «Vogue», un tempo rivista con ambizioni culturali.
Bloomsbury, una passione, congiunta al potere del salotto culturale più all'avanguardia dell'intero Regno, salotto su cui le teorie di George E. Moore influiscono, consentendo (tra l'altro) a noi di distinguere tra stato intrinseco amoroso e comportamento monogamico, più in generale, di coltivare un'etica che privilegia il merito in sé, indipendentemente dalle azioni conseguenti. Conosco Bertrand Russell e forse, non ricordo bene, Ludwig Wittgenstein. La filosofia nelle mie opere? Se ne è detto. Il «Cambridge Companion», che di me tratta, non esita a inserire, tra le mie ottiche intellettuali, quella filosofica. Benché con le parole viaggi nelle menti umane, nei flussi di coscienza, attraverso il tempo, al racconto, romanzo, saggio filosofico non aspiro più di tanto, come del resto a quello familiare e/o psicologico. I racconti rimangono racconti, i romanzi romanzi, i saggi saggi. E se di autobiografismo di Mrs Dalloway si deve proprio parlare, perché non assimilarlo a quello delle Confessioni di Agostino d'Ippona o alle Meditazioni metafisiche di Cartesio? I miei personaggi s'interrogano spesso e sollevano non pochi dubbi, dubbi dal l'afflato solipsistico.
Intendo superare la letteratura naturalista ottocentesca, non affermare che esista solo una realtà psichica, negando quella oggettiva al di fuori delle nostre menti. Altrimenti George E. Moore non mi darebbe scampo col suo «The Refutation of Idealism», apparso su «Mind». Rimproveri pure dal mio Bertie, debitore in proposito a Moore, come si legge nella prefazione della prima edizione di The Principles of Mathematics. Scrivo di amore, benessere sociale, dolore, gerarchie di classe, giustizia (pare che io offra spunti interessanti sulla giustizia distributiva, trascendendo le barriere di genere), guerra, morte, pace, pacifismo, persone, potenzialità, relazioni tra sessi e generi, solitudine, vita. Di più: dichiaro che, in quanto donna, non ho paese, né lo voglio; il mio paese è l'intero mondo. Ma ciò mi consacra filosofo? La Hogart Press pubblica un volume di Michel de Montaigne, e vi è parecchia filosofia in John Maynard Keynes e Sigmund Freud. A Montaigne, del resto, dedico un saggio, in cui, oltre a menzionare Jean-Jacques Rousseau, ricordo che la bellezza si situa ovunque, pure «a due sole dita dalla bontà». Estetica ed etica. Qualcosa che s'intreccia a una curiosità scientifica, quando il 30 giugno 1927 descrivo nel mio diario l'eclissi totale di Sole.