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E se tra Eastwood e Frears a godere fosse Checco Zalone?

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Questo articolo è stato pubblicato il 06 gennaio 2011 alle ore 17:39.

Natale è passato, con un testa a testa tra i Babbi Natale di Aldo, Giovanni e Giacomo e il Natale in Sudafrica del gruppo Filmauro. I primi sono avviati a un'imprevista vittoria, ma c'è chi dice che Checco Zalone, complice un week-end lungo, potrebbe farne un sol boccone nel giro di dieci giorni. E, va detto, non sarebbe uno scandalo. Che bella giornata, infatti, è un film comico solido, ben curato e studiato, con un protagonista in stato di grazia. E il pubblico l'ha intuito se è vero che le sale sono aumentate di più del 20% rispetto alle iniziali previsioni, se per questa settimana c'è stato un boom di prenotazioni di biglietti (delle quali l'87% sono per Che bella giornata) e se molti prevedono sette zeri nell'incasso già per lunedì prossimo. E, infine, l'uscita prevista per il 5 gennaio è una mossa vincente, essendo l'unico week-end di queste festività con un ponte lungo e avendone dimostrato la Warner, l'anno scorso, con Io, loro e Lara di Carlo Verdone, l'efficacia.


Al di là dei numeri, comunque, il film rappresenta un'importante evoluzione sul modello del film (post)natalizio. Non c'è approssimazione nei contenuti e nella forma, non si sfrutta una comicità trita e ritrita (amore, corna, nudi, rumori molesti e battute modeste) e si cura il ritmo come ai bei tempi. Merito, questo, non solo di un comico tra i migliori della sua generazione ma anche di un produttore abile e capace come Pietro Valsecchi (sue le cose migliori della tv degli ultimi dieci anni) e della regia del talentuoso Gennaro Nunziante.

E così, anche se Zalone non raggiunge, inevitabilmente, le sue vette televisive, anche perché fa scelte difficili come quella di non sfruttare ossessivamente le sue canzoni- ma un paio, inedite, sono geniali-, ci regala un bel prodotto. Che ci sentiamo di consigliare per questo fine settimana, contro l'abitudine critica che porta a snobbare questo tipo di lungometraggi e nonostante ci siano, a rivaleggiare con lui, i dignitosi film di Frears e Eastwood.

Diverte Zalone, e provoca con il suo socio-politicamente scorretto. Si scaglia con arguta e ruvida cattiveria contro i pregiudizi razzisti italioti, come nell'irresistibile siparietto con i terroristi arabi: li critica per il loro maschilismo, poi maltratta la madre. Se la prende con il valore dato all'istruzione in Italia quando dice "che studiare qui in Italia non serve a niente", per poi buttarsi su una battuta- una delle migliori- di Rocco Papaleo che ridicolizza le missioni militari italiane in Iraq e Afghanistan. E, per tutto il film, lancia stoccate alla Chiesa .

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Dialoghi semplici e diretti, che spesso vorremmo sentire anche nei film d'autore. Quello di Zalone, qui addetto alla sicurezza che ne combina di tutti i colori e si ritroverà a combattere con il terrorismo islamico, è un film popolare destinato a successo sicuro- chi volesse scommettere, dovrebbe farlo sul botto del comico pugliese: potrebbe superare persino il risultato straordinario di Benvenuti al Sud- ma è anche un'opera comica moderna che potrebbe far evolvere il genere.

E anche nella scelta della sua metà femminile, Nabiha Akkari, Zalone (e Nunziante) mostra gusto e bravura: non la solita maggiorata supersexy e "bonazza" ma una bellezza gentile e grintosa, un'attrice capace di essere ottima spalla del comico demenziale pugliese.

Decisamente più raffinato Stephen Frears. Il suo Tamara Drewe: Tradimenti all'inglese, si butta nella provincia profonda inglese con elegante perfidia. Invece di usare la spigolosa faccia di Zalone, però, decide di mostrarcela attraverso gli splendidi lineamenti di Gemma Arterton. Lei, tanto brava quanto sottovalutata, sa farsi benissimo veicolo del gusto per la commedia- in questo caso con un tocco dark- e il melodramma che ha Frears, e giocando con il suo ruolo di donna emancipata e desiderata, racconta invidie, pettegolezzi e meschinità dei piccoli centri. E del mondo attuale, in generale. Questa giovane giornalista che torna nella cittadina materna da cui se n'era andata con qualche difetto fisico in più e sicurezza in meno, torna scompigliando i suoi ex amici, fidanzati, sognati principi azzurri. Torna per vendere la casa ereditata e scrivere la sua autobiografia.

Gli uomini qui risultano meschini o inadeguati, lei brillante e pericolosa, Frears gioca con tutti e tutto con bravura e sapendo recuperare lo spirito della graphic novel omonima di Posy Simmonds (usata come uno storyboard, il film le è molto fedele), a sua volta tratta da Via dalla pazza folla di Thomas Hardy, a cui Frears "dedica" Glen, gradevolissimo personaggio. Peccato solo per qualche leziosità e per la lunghezza eccessiva (111 minuti) che annacqua molte intuizioni e relega il film a un'abbondante sufficienza. Una buona commedia non indimenticabile, ma sicuramente gradevole.

Chiude il trio di film in uscita il grande Clint Eastwood. Che, incredibile a dirsi, delude.
Ma solo alcuni, va detto, visto che molti critici l'hanno applaudito a scena aperta. Il suo Hereafter, però, sembra un'opera minore nella sua incredibile cinematografia. C'è da dire che il lungometraggio sconta la grandezza del cineasta e le alte aspettative che lo stesso suscita. E che, nonostante i passaggi a vuoto, così come Maradona riusciva a regalare due-tre giocate incredibili anche nelle partite peggiori, il vecchio Clint piazza due-tre zampate delle sue con scene da antologia. Ma il primo Eastwood ultraterreno, alle prese con la morte e ciò che viene dopo, soffre di una discontinuità eccessiva, di tre storie che si perdono troppo spesso, di un Matt Damon che non sembra all'altezza di un ruolo difficile che cerca di interpretare con dignità e di una retorica a tratti mielosa che è molto lontana dall'epica (e dall'etica) sentimentale solita del regista. A tratti anche nelle immagini sembra approssimativo, tratta il tema con indulgenza forse inevitabile (che un uomo attorno agli 80 pensi alla morte e al "dopo" è inevitabile, che cerchi qualcosa di consolatorio anche di più) e sembra voler suscitare una facile commozione. Perché la sua semplicità diretta qui a volte diventa banalità. Perché la conduttrice "redenta" dopo lo tsunami, il veggente che maledice il suo dono, il bambino schiacciato dalla colpa e dall'assenza del fratello (splendido il quarto d'ora dedicato a loro) non sembrano raggiungere mai lo spessore dei suoi personaggi migliori.

Detto questo, non ci sentiamo di sconsigliarlo. Perché Clint Eastwood, anche in un suo film minore, merita la visione. Rimane, comunque, il miglior regista dell'ultimo ventennio, così come Coppola lo è stato degli anni '70 e '80. Per qualità e quantità. E perché mai come con Hereafter, ci troviamo di fronte a un film che parla al cuore di ognuno di noi. E che quindi merita, necessita del giudizio individuale e personale di ognuno di noi.
L'Epifania, insomma, ci porta tre bei regali nella sua cinecalza: profondamente diversi, ma tutti interessanti.

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