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Questo articolo è stato pubblicato il 18 gennaio 2011 alle ore 20:10.

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Da Bogart ad Alain Delon. Alla Triennale il cinema si mette il cappelloDa Bogart ad Alain Delon. Alla Triennale il cinema si mette il cappello

È l'immortale Humphrey Bogart a essere debitore del suo inseparabile Borsalino o è il cappello della leggendaria casa alessandrina a dovere tutto al mito di «Casablanca»? Viene da chiederselo a chi in questi giorni visita la Triennale di Milano, dove fino al 20 marzo è in corso la mostra «Il cinema con il cappello. Borsalino e altre storie», curata dal critico cinematografico Gianni Canova e fortemente voluta dalla stessa Fondazione Borsalino.

Una raccolta di foto, cimeli e materiale interattivo di vario genere che indaga il binomio centenario tra cinema e cappello. Un tema dalle innumerevoli possibili declinazioni: cosa sarebbe Indiana Jones senza il suo cappello a larghe falde? O Charlot senza la sua bombetta? Da sempre il cinema si è appropriato della capacità del cappello di raccontare efficacemente e silenziosamente, generando riconoscimento e identità, sollecitando trasformazioni: in «Sabrina» il cappello segna la trasformazione parigina di Audrey Hepburn in donna di classe, i cappelli di Greta Garbo in «Ninotchka» sono addirittura segni precursori della fine del comunismo. Al cinema il cappello crea mode e tendenze: da James Dean che negli anni Cinquanta lancia il grande cappello con falda rialzata che campeggiava nella locandina de «Il Gigante» al colbacco che con «Il dottor Zivago» entra a far parte del vestiario occidentale, al berretto di lana de «Il cacciatore» a quello di «Rocky» quando, dismessi i guantoni, vaga per le strade di Philadelphia. Un articolo, quest'ultimo, che non a caso diventa il copricapo popolare degli anni Settanta. Senza dimenticare che grandi registi hanno depositato la propria icona in un'immagine col cappello: da Federico Fellini a Sergio Leone passando per Orson Welles.

La mostra milanese si articola secondo cinque nuclei tematici, scanditi attraverso un percorso espositivo in cui l'allestimento multimediale e visionario conduce il visitatore secondo percorsi obbligati o solo suggerti. Si parte da «L'identità ovvero il cinema con il cappello»: un grande cilindro multimediale svela il ruolo chiave del copricapo nella stessa costruzione identitaria del cinema. Dai protagonisti della pellicola sino all'emblematico dialogo di Peter Falk ne «Il Cielo Sopra Berlino» di Wim Wenders in cui attraverso la ricerca del cappello giusto si racconta il cambio di identità sotteso a ogni cambio di copricapo: gangster, borghese, eccessivo, comico. «Il cappello che emoziona» propone una sequenza di sale, ciascuna diversa dall'altra, fino a scandire le diverse emozioni suscitate dal copricapo nelle sue diverse fogge. Guidato da suoni e rumori, il visitatore incontra il cappello che fa ridere, il cappello che fa piangere, il cappello che seduce, il cappello che fa paura. «Scappellamenti e gesti»: dieci, venti, cento scappellamenti cinematografici (riverenza, rispetto, saluto, ringraziamento, esultanza) a confronto, per ritrovare tutti i molteplici significati dei gesti legati all'uso del cappello. Poi c'è «La giostra dei nomi»: dal Borsalino, nome proprio divenuto sinonimo di cappello classico maschile, al basco, all'elmo, al casco, alla coppola, al turbante, alla bombetta, al colbacco, al berretto e alla feluca. In ultimo, la sezione «Borsalino lancia Borsalino», con la mostra si conclude là dove tutto ha inizio: una carrellata dei Borsalino più famosi nella storia del cinema introdotta dai due celebri film «Borsalino» (1970) e «Borsalino & co.» (1974), entrambi di Jacques Deray con Jean Paul Belmondo e Alain Delon. Due opere che nel titolono porta il logo dell'antica casa alessandrina, scelta dal regista per rappresentare il gusto degli anni Trenta. Quando l'arte cinematografica imitava la vita (e i suoi cappelli) e la vita imitava l'arte cinematografica. E ovviamente i suoi cappelli.

«Il cinema con il cappello. Borsalino e altre storie»
Milano, Triennale, dal 18 gennaio al 20 marzo 2011
A cura di Gianni Canova
Ingresso gratuito
www.triennale.org

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