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Questo articolo è stato pubblicato il 21 gennaio 2011 alle ore 06:40.
Michela Finizio
«La Sicilia di cui parla Calabrò mi appartiene. Racconta di chi, come me, ha dovuto lasciare Palermo e le sue contraddizioni». Fausto Russo Alesi, regista e interprete di origini palermitane, ora in scena al Franco Parenti di Milano con Cuore di Cactus, dall'omonimo libro di Antonio Calabrò. In scena l'avvincente diario di un giornalista che ha raccontato 40 anni di storia italiana, e che parte alla volta di Milano dopo 15 anni di militanza antimafia presso «L'Ora».
Come è nato questo spettacolo?
Leggendo mi sono subito appassionato. È un libro sull'andare via da Palermo e Milano è il luogo da cui l'autore guarda la sua città, da lontano. Ho trovato molte condizioni che mi riguardano: vivo a Milano da 18 anni e la Sicilia di cui parla Calabrò la conosco bene, nonostante la distanza generazionale tra me e l'autore. Io sono un attore, lui un giornalista, ma l'idea di dedicare un momento di riflessione alle mie radici siciliane, al cuore ma anche alla parte malata di Palermo, mi piaceva.
È una tua denuncia contro la mafia?
Il testo parla di mafia, ma soprattutto di quanto gli echi di quella mafia si riflettono sulla città di chi scrive. La mafia è un dato di fatto, è ciò che ha costretto il protagonista a lasciare la sua terra, ma è soprattutto un libro sul perché si emigra.
La formula diaristica ricorre nei tuoi spettacoli. Fa parte del tuo stile?
È una casualità. Nei miei ultimi spettacoli si parla di temi necessari, attraverso testi molto brillanti. Le parole dei protagonisti consentono di analizzare le ragioni profonde di certe condizioni. La formula, comunque, è simile: curo la regia e ne sono interprete. Questa volta però ho fatto anche la drammaturgia, in collaborazione con l'autore. Mi piace l'idea di costruirmi da solo, di ritrovarmi in una cosa, è un modo per allenarmi.
Cosa hai sottolineato del testo nel lavoro di drammaturgia?
Ho cercato di conservare tutte le anime che emergono della Sicilia. Lo spettacolo è diviso in due parti. La prima più passionale, ripercorre i primi anni del giornalista Calabrò, anni di sangue in cui si racconta la difficoltà di lavorare per un giornale contro le mafie. Sono gli anni dell'informazione, e della non informazione. Del lavoro, e del non lavoro. La seconda parte invece è più lucida e razionale, fatta di riflessioni e bilanci.