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Questo articolo è stato pubblicato il 23 gennaio 2011 alle ore 08:20.
A Milano abitavamo vicino, in due piccole strade a poca distanza dal Duomo: lui in via Maria Teresa, io in via Cardinal Federico, una laterale della Biblioteca Ambrosiana. Ci incontravamo talora in quel dedalo di viuzze e ci scambiavamo poche parole. Avevo conosciuto Carlo Bo durante una cena nella casa dello scrittore Luigi Santucci, amico carissimo a entrambi: era stato l'avvio di una conoscenza rarefatta che però aveva una sua intensità, soprattutto attorno a quei temi ecclesiali che avevano sempre appassionato e un po' anche tormentato il pensiero e la fede del famoso scrittore, studioso e uomo pubblico. L'ultimo incontro avvenne nella sua casa milanese tutta foderata di libri. Alcuni amici della scrittrice Lalla Romano, che era allora da poco scomparsa e della quale avevo celebrato i funerali, si erano ritrovati per costituire un'associazione o una fondazione che ne custodisse il lascito culturale. Bo assisteva e partecipava con quei silenzi "omerici" che erano divenuti quasi una sua sigla e che, quindi, alonavano di rilievo le sue poche parole.
Alla fine volli trattenermi e, da soli, parlammo dei temi che erano stati sollevati durante un'intervista radiofonica che avevo rilasciato quella stessa mattina. Era il giugno 2001 e poche settimane dopo, il 21 luglio, egli sarebbe morto a Genova (era anche ligure la città della sua nascita avvenuta cent'anni fa, il 25 gennaio 1911, cioè Sestri Levante). La sostanza di ciò che mi disse allora la ritrovai in un suo dialogo riferito da Sergio Zavoli nel suo Diario di un cronista (Rai-Eri/Mondadori, 2002): «Ho l'impressione che la voce di Dio passi nei nostri cuori e non lasci traccia. Il consenso senza sofferenza che diamo a Dio è solo un modo, fra tanti, di non rispondergli». Si intravedeva in quelle parole non solo la sua fede che vibrava degli stessi battiti di quella degli amati Pascal, Bernanos, Péguy, Claudel, Maritain (senza dimenticare Mallarmé e Rivière), ma anche il suo tormento per il passaggio spesso frustrato e frustrante di Dio nelle strutture ecclesiastiche da lui considerate troppo pesanti, opache e resistenti a quella voce.
Eppure egli era rimasto sempre un cattolico tout court, perché – per usare un'espressione del suo e mio amico padre Turoldo – non si inseriva né nel dissenso molto vivace nei decenni conciliari, né nel consenso, prevalente negli anni precedenti e successivi, ma semplicemente nella ricerca di senso. E in questo sono emblematici i personaggi religiosi del suo ideale pantheon spirituale. Al primo posto è collocata la figura di uno straordinario parroco di campagna, la cui voce fu così intensa da essere definita da un Papa, Giovanni XXIII, «tromba dello Spirito Santo» nella terra padana: era don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo (Mantova), «obbedientissimo in Cristo» alla sua Chiesa, ma così libero nella sua fedeltà al Vangelo da non esitare a far vibrare la sua parola contro ogni compromesso. «Noi passeremo – scrive Bo che lo conobbe, lo ascoltò e lo lesse – col rumore dei nostri problemi, con tutti i cartoni dei ridicoli teatri spirituali che abbiamo messo insieme da letterati e don Primo resterà sulla porta della sua parrocchia con le braccia aperte, a ricevere tutti, senza mai chiedere il nome o la nostra piccola odissea».