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Questo articolo è stato pubblicato il 26 gennaio 2011 alle ore 06:40.
All'inizio furono fiamme nutrite di parole, accompagnate dalle grida ritmate degli studenti. Il 10 maggio 1933, sulla piazza dell'Opera di Berlino, e in altre ventuno città tedesche, andò in scena l'enorme falò dei libri scritti «dai nemici e dai traditori dello spirito tedesco». Mentre bruciavano i libri, gli attivisti del partito nazista recitavano le cosiddette formule del fuoco (Feuersprüche), ricordando uno dopo l'altro gli autori dannati: da Marx a Freud, da Erich Maria Remarque a Tucholsky. Un vero e proprio rito magico, un sabba organizzato per purificare la Germania e il mondo intero dalla «corruzione dello spirito». Heinrich Heine, il poeta ebreo-tedesco della ragione e del sentimento, lo aveva profetizzato con un secolo di anticipo: «Dove si bruciano i libri, si finirà per bruciare anche gli uomini».
E così fu. La danza macabra del Novecento, cominciata coll'immane rogo della cultura, divenne sempre più frenetica, sino al parossismo distruttivo della Shoah. Da quel giorno di maggio sono trascorsi quasi 80 anni. L'Europa è riuscita a ricomporre la biblioteca incenerita dai nazisti? Esiste una «biblioteca della memoria» che colmi il vuoto e permetta davvero di ricordare?
Forse sì. Gli autori che si volevano allora distruggere sono in gran parte tornati a essere patrimonio della modernità e, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, un enorme numero di volumi ha descritto gli orrori della persecuzione degli ebrei e lo sfregio della morale che ne è seguito. Per di più filosofi, storici, narratori frequentano assiduamente l'argomento, tanto da produrre una crescita esponenziale dei titoli.
Eppure, non sempre l'incremento della quantità si accompagna a qualità o chiarezza. La biblioteca della memoria rischia di trasformarsi in una biblioteca di Babele, in cui si mescolano realtà e invenzione, e la sincerità delle testimonianze dirette è offuscata dalle furbizie di un mercato che "tira". Innanzitutto bisogna distinguere tra storia e romanzo, e poi tra la parola di chi visse in prima persona i fatti, e di chi ne fu toccato in maniera marginale, e infine avvedersi della "seconda" o "terza" generazione, cioè dei figli, o figli dei figli.