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Cultura-Domenica Ventiquattro

Juba, la capitale che verrà

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Questo articolo è stato pubblicato il 27 gennaio 2011 alle ore 10:07.

«Juba si sta facendo bella per l'indipendenza, cambia ogni giorno, sotto i nostri occhi». Padre José Vieira, giornalista e missionario comboniano, sa di cosa parla: è arrivato nella capitale del Sudan del Sud nel 2007, a due anni dall'accordo di pace che ha chiuso più di vent'anni di guerra civile tra Nord e Sudan meridionale e permesso la creazione del nuovo governo autonomo regionale, guidato dagli ex ribelli dell'Esercito per la liberazione popolare del Sudan (Spla, nell'acronimo inglese). Da allora è rimasto qui, a dirigere la redazione giornalistica del network radiofonico della Chiesa cattolica. «Quando sono arrivato, l'unica strada asfaltata era quella che dal centro di Juba porta all'aeroporto. Per il resto c'erano solo viottoli in terra battuta, polverosi e pieni di buche, che si riempivano di fango e pozzanghere con la stagione delle piogge. Ora - continua il padre portoghese - non è più così».

Cresciuta sulla sponda sinistra del Nilo Bianco, a un centinaio di chilometri o poco più dal confine con l'Uganda, sin da fine Ottocento Juba è stata la città principale del Sudan del sud, una regione grande due volte l'Italia. La città, che conta oggi circa 500mila abitanti, durante la guerra è rimasta nelle mani del governo centrale di Khartoum e del suo esercito, quindi pressoché isolata dal resto della regione e a lungo sotto assedio dei ribelli. Con la pace del 2005 è come se avesse riaperto i battenti. Ed è rinata, quasi da zero.

Lentamente, almeno all'inizio: nei primi mesi del 2006, nel mezzo di un'epidemia di colera, gli accessi via terra e alcuni ponti sul Nilo Bianco erano ancora controllati dall'esercito di Khartoum, i voli su Juba erano pochissimi, si trovava alloggio solo in campi di tende o di container, a cento dollari a notte, e l'unico mezzo per comunicare con l'esterno era il telefono satellitare. Eppure, per la popolazione che era rimasta a Juba durante il conflitto, la città era già diversa da prima. O quanto meno era diverso il clima generale. «Le persone, in particolare le donne, sembrano avere più fiducia in quel che possono realizzare, partecipano, si danno da fare», ci aveva detto all'epoca mama Lucy, fondatrice di una rete di microcredito al femminile. Certo, i ricordi della guerra erano ancora molto freschi, «sappiamo che questa pace ha molti nemici», avvertiva mama Lucy. Ma l'atmosfera e lo spirito con cui la gente comune affrontava una quotidianità comunque molto difficile avevano già iniziato a cambiare.

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TERRA PROMOSSA?

Due settimane fa un referendum ha dato ai sudanesi del sud l'opportunità di decidere se diventare

Tags Correlati: Chiesa cattolica | Cultura | Daniel Wani | José Vieira | Juba | Kenya | Nilo Bianco | Spla | Uganda

 

I risultati si vedono oggi, quando è finalmente giunto l'appuntamento più atteso, il referendum per l'autodeterminazione con cui il Sudan del sud due settimane fa (i risultati dovrebbero essere resi noti il 14 febbraio, a un mese dalla chiusura dei seggi) ha scelto se rimanere parte del paese più grande dell'Africa, entro i confini attuali, o diventare uno stato indipendente, il neonato della mappa politica del continente. «Il timore che all'indomani dei risultati del voto si possa tornare alle armi è costante e condiviso da tutti - racconta padre José -. Nelle ultime settimane si vedono meno persone in giro per le strade, sembra quasi che in molti preferiscano passare più tempo a casa». D'altra parte sono molti i sud-sudanesi che, di fronte a domande dirette sul rischio guerra, rispondono con un'alzata di spalle e un sorriso. «Ho 49 anni - racconta Michael, autista di un'organizzazione non governativa straniera - e per la maggior parte della mia vita il Sudan del sud è stato in guerra. Se dovesse ricominciare, combatteremo di nuovo. Ma almeno questa volta avremo un esercito convenzionale, non un gruppo di ribelli».

La conferma che lo Spla, l'ex braccio armato dei ribelli e ora esercito regolare del Sudan del sud, si sia riarmato in questi anni di pace è arrivata anche dai documenti della diplomazia americana resi pubblici alla fine dello scorso anno da Wikileaks. «È vero - conferma padre José - ma l'impressione che si ha guardandosi attorno è un'altra: dopo aver usato per anni tende e container e poi materiali prefabbricati di plastica, ora gli hotel sono costruiti in muratura, cemento e ferro. Materiali molto più costosi e fatti per rimanere. E la stessa cosa vale per le case, le ville, gli edifici pubblici. Di fatto è una scommessa sulla pace».

Cinque diversi operatori di telefonia mobile assicurano la copertura in città, con tanto di roaming internazionale, mentre sono molti i locali che forniscono connessione internet wi-fi. Il Sudan del sud e la sua capitale in particolare sembrano ormai essere la nuova frontiera degli investimenti dei molti businessmen asiatici e dell'Africa orientale, Kenya e Uganda in testa, che affollano quotidianamente l'aeroporto di Juba. Ci sono voli diretti da Khartoum, da Nairobi e da Entebbe, da Addis Abeba e, negli ultimi mesi, dal Cairo. Il progetto di allargare e rinnovare l'aeroporto di Juba è già pronto, ma i tempi saranno lunghi.

L'industria timidamente si fa strada: primo prodotto made in South Sudan è stata una birra (in sfregio al Sudan del nord musulmano dove l'alcol è fuorilegge?). «Ma hanno aperto anche otto impianti per l'imbottigliamento d'acqua e c'è abbastanza pollame per soddisfare i bisogni alimentari della città», specifica padre José. Un altro cambiamento rilevante, visto che fino a qualche anno fa per buona parte dei beni di consumo, dagli alimenti al carburante, la regione di Juba dipendeva dagli approvvigionamenti che arrivano dal Kenya e dall'Uganda, con costi di trasporto molto alti. E questo pur trattandosi di un'area potenzialmente ricca, dal punto di vista agricolo come da quello delle materie prime, petrolio in testa.

Juba rimane carissima, una delle città più costose d'Africa. «È un mistero come molta gente riesca a mettere assieme il pranzo con la cena», dice ancora padre José. Eppure «i ristoranti sono sempre pieni, c'è un sacco di denaro in giro, dollari che vanno e vengono facilmente». Non abbastanza, almeno per il momento, a finanziare l'ambizioso e costosissimo piano edilizio reso noto lo scorso agosto, in una conferenza stampa ripresa dai giornali di mezzo mondo, dal sottosegretario alla pianificazione edilizia e fisica del governo del Sudan meridionale, Daniel Wani: Juba e le altre città sud-sudanesi dovrebbero essere "ridisegnate" in modo da assumere la forma di animali. Juba dovrebbe diventare un rinoceronte, con tanto di corna, come ogni rinoceronte che si rispetti. Il progetto non è stato apprezzato dall'opinione pubblica sud-sudanese, pare. Forse perché la popolazione preferirebbe che i soldi andassero ai servizi essenziali (sanità, istruzione, strade, solo per dirne alcuni), già carenti a Juba, ma quasi totalmente assenti in larghissima parte della regione. I cui indicatori di sviluppo economico e sociale continuano a essere tra i più bassi al mondo.

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